Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore

21 ottobre 2018

LETTURE: Is 53,2.3.10-11; Sal 32; Eb 4, 14-16; Mc 10, 35-45.

Il grande valore della sofferenza nella tradizione spirituale cristiana è il segno più evidente della redenzione operata da Gesù Cristo, ma anche il più grande mistero associato alla fede. Questa ambivalenza rappresenta il punto di vista espresso dalle letture che la liturgia di questa domenica ci offre, e che ricorda il valore sacrificale dell’offerta di Gesù, ma anche la necessaria umiltà degli uomini come unica condizione di grandezza per il credente cristiano. La splendida lettura tratta dal profeta di Isaia, parte di uno dei carmi del “servo sofferente di JHWH, offre alcune splendide espressioni che contengono tutta la forza della redenzione racchiusa nel paradigma della sofferenza. E d’altra parte, ogni offerta è “s-offerta”, perché costa un sacrificio, implica un movimento di abbassamento, viene a donare per colmare un vuoto. Tutte queste azioni sono la descrizione del Redentore, il Messia, colui che è unto e unge con il suo amore, donando se stesso.

La poesia di Isaia manifesta una bellezza letteraria straordinaria e la descrizione minuziosa di una profonda e sagace profezia: proprio il “servo del Signore, cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida”, viene a compiere il suo ministero di redentore in un contesto diverso da quello atteso: “disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire”. La pazienza, sostantivo derivante dal verbo “patire”, è il segno di questa espiazione necessaria, che il servo deve compiere a nome di tutti. Egli completerà la sua opera diventando il sacerdote perfetto, quello che attraversa il santuario del cielo e compie l’espiazione-redenzione. Splendido l’accoppiamento tra il testo del profeta Isaia e il testo della lettera agli Ebrei, dove il Servo del Signore è denominato il “Sommo Sacerdote”, colui che presiede la cerimonia per eccellenza della religione ebraica, quello “Yom Kippur” che manifesta la richiesta di perdono dei peccati, compiuta a nome di tutti proprio dal sommo sacerdote, nel luogo più interno del tempio di Gerusalemme.

Ricevere misericordia e trovare grazia” è il compito di coloro che seguono il Signore, che rimangono a lui vicino e sanno sviluppare la propria esistenza coscienti di questa radicata presenza salvifica. Ma quale atteggiamento di fede richiede Gesù, lui che si offre per noi patendo “senza aprir bocca”? L’umiltà rappresenta l’elemento centrale di costruzione di questa grande virtù teologale che è la fede, e diventa l’unica credibile testimonianza dell’essere cristiani, soprattutto in una società come la nostra, fondata sul successo, sul potere e sulle apparenze. L’ambizione non appartiene intrinsecamente al cammino della sequela di Gesù. Eppure noi vediamo come sia facile cadere in questo vizio, soprattutto all’interno della struttura ecclesiastica, nelle sue più diverse funzioni. La domanda apparentemente innocente, formulata da Giacomo e da Giovanni – “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” – manifesta la matrice nascosta di questa ambizione, dove all’apparente vicinanza amorosa a Gesù, si cela, appunto, l’insidia strisciante e la tentazione di voler essere vicini per governare. Gesù avverte il movimento subdolo incluso nella richiesta, e rifiuta immediatamente il ruolo di padrino della situazione: “sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”. Gesù non “raccomanda”, Gesù salva, e tra le due situazioni esiste il cammino di conversione che i discepoli devono compiere per comprenderlo.

Tra voi però non è così”. Queste poche parole, nella loro asciuttezza, manifestano tutta la semplicità e la radicalità che il cammino dell’umiltà richiede. Nella chiesa di Gesù le cose non possono andare come nel mondo, perché la chiesa di Gesù non è un’azienda che fattura e i suoi sacerdoti non possono esserne i funzionari efficienti e attivisti, ma piuttosto sono i testimoni dell’amore e i credenti si lasciano riconoscere non attraverso le apparenze, ma nella capacità di costruire silenziosamente e nascostamente quel Regno dei Cieli, la cui cittadinanza è già in questo mondo. Quanto sono attuali le parole di Gesù per la nostra chiesa, e quanto è necessario crescere per tutti noi in questa sequela di semplicità! “Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. Questo monito è la traccia del cammino pedagogico lasciato per noi. Seguirlo è molto duro, ma questo è un cammino di vera purificazione. Nella cultura ebraica il “servo” è proprio colui che governa, che in tale termine manifesta la piena sottomissione al volere divino. San Tommaso d’Aquino, nel commento alla Politica di Aristotele, ricorda che il servizio di chi governa è il più necessario, il più prudente e il più umile, tale da essere reso solo da chi si lascia chiamare “servo”.

Ecco che il concetto del servizio reso alla comunità si ricongiunge al dono di se stesso ed alla prospettiva messianica del servo del Signore raccontata da Isaia. Infatti è proprio a questa profezia che Gesù si riferisce quando afferma: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Rendere la propria vita come servizio di salvezza per il genere umano significa anche donare alla chiesa il compito di lasciare vedere questa salvezza sofferente nei piccoli gesti di amore quotidiano, nella capacità di celebrare la presenza del Signore anche nei contesti di paura e nel disagio, nel saper confortare coloro che attendono con grande ansia questa salvezza, vessati da tanti mali fisici e spirituali, per cui davvero si possano affermare le parole del ritornello del Salmo 32: “Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo”. Questa è la più bella preghiera che possiamo rivolgere a Gesù, dinanzi alla sua continua opera di redenzione.