Darsi a Dio

18 ottobre 2020

LETTURE: Is 45,61.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21

La liturgia di questa domenica presenta una pagina dal vangelo secondo Matteo molto famosa e spesso chiamata in causa nel suo passaggio conclusivo: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio».

È sempre opportuno, per alcune frasi delle Sacre Scritture divenute celeberrime, richiamare il contesto in cui esse appaiono, affinché se ne possa apprezzare il significato profondo. Nell’ennesima controversia con i farisei, che gli propongono una domanda infida pensando che non potrà che dare una risposta insoddisfacente o pericolosa, quando non blasfema, Gesù chiede una moneta: l’immagine e la scritta che riporta, di chi sono? La domanda del Signore può essere così interpretata: se l’immagine e la scritta sono di Cesare, e indicano quindi il potere che è garante della giustizia dello scambio che si compie tramite la moneta, è giusto pagare il tributo. Ancora più radicalmente: lasciate all’imperatore la moneta, e preoccupatevi di rendere a Dio ciò che è suo; e cioè rendete voi stessi a Dio, perché siete sua immagine. In altre parole, il Signore vuole indicare che esiste un valore ancora più alto e importante, del quale vale la pena di preoccuparsi, e questo è l’uomo stesso: la moneta, che porta l’immagine di Cesare e viene da Cesare, va resa a Cesare, ma l’uomo, che è immagine di Dio, va reso a Dio; deve preoccuparsi di tornare a Dio.

Si tratta di una lettura più profonda e in ultima analisi più orientata verso il messaggio evangelico, di quella su cui in genere si è soliti appiattire la risposta di Gesù ai farisei: non si tratta, qui, solo di delimitare due ambiti di responsabilità e per così dire di potere. La liturgia stessa di questa domenica non lo permette, se consideriamo il brano profetico che è dato come prima lettura, dal libro di Isaia, dove il re persiano Ciro, vincitore di Babilonia che aveva deportato Israele e lo costringeva a vivere in terra straniera, viene indicato come strumento inconsapevole della volontà di Dio: «Ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non v’è alcun altro; fuori di me non c’è Dio». Vengono alla mente le parole del dialogo fra Gesù e Pilato, nel Vangelo secondo Giovanni: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse dato dall’alto» (Gv 19,11). In ultima analisi, e con un passo per molti versi da accostare a quello da cui siamo partiti, per comprenderne fino in fondo anche la storia dell’interpretazione andrà sempre tenuto presente che «non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rm 13,1).

Tuttavia, è vero che con l’affermazione che bisogna rendere «a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio», Gesù indica un principio che è parte integrante del pensiero cristiano. Un testo molto bello a riguardo è quello della Lettera a Diogneto, che si può far risalire attorno alla metà del II secolo. Per l’ignoto autore, i cristiani sono nel mondo come l’anima è nel corpo: diffusi ovunque, invisibili, vivono da stranieri fra le cose corruttibili, essi che attendono l’incorruttibilità di cui hanno già una caparra. «Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi» (V,12); «Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera» (V,5). Potremmo dire: rendono a Cesare quello che è di Cesare («partecipano a tutto come cittadini»), ma a Dio quello che è di Dio, e cioè loro stessi, totalmente e senza divisione («da tutto sono distaccati come stranieri»). Si tratta di una bella esegesi del passo di Matteo di questa domenica.

I cristiani non ritengono assolutamente necessario che il potere politico sia segnato dal loro credo, che il re sia unto dai loro sacerdoti: le circostanze storiche a volte sono andate in questa direzione; altre volte, anzi – bisogna dirlo con chiarezza: la storia della Chiesa non coincide con la storia della Chiesa in Europa, sebbene questa ne costituisca certamente un asse almeno visibilmente centrale – spesso no. Nel Nuovo Testamento si trovano di frequente riferimenti al fatto che l’autorità politica ha in sé una sua legittimazione, in quanto espressione di un bisogno universale dell’uomo che è naturalmente sociale e quindi bisognoso di un’organizzazione politica. È parola di Dio, ma espressa anche attraverso uomini che in quel tempo a volte sperimentavano la persecuzione, a causa della fede che professavano: «Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla dignitosa e dedicata a Dio. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore» (1Tim 2,1-3); «Ricorda loro di esser sottomessi alle autorità che governano, di obbedire» (Tt 3,1); «Vivete sottomessi ad ogni umana autorità per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come inviati da lui per punire i malfattori e premiare quelli che fanno il bene. Perché questa è la volontà di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re» (1Pt 2,13-15a.17).

Ogni potere viene da Dio – che lo sappia o no chi lo esercita, perché in definitiva è Dio che ha creato l’uomo come essere che vive in società – e necessita dunque di un’organizzazione sociale e politica; per questo è giusto pagare il tributo, se questo non va evidentemente contro le leggi di Dio. Non è necessario che il re sia cristiano perché gli si debba onore e rispetto. E tuttavia i cristiani sanno che vi è un potere più alto, un tributo più alto, una società ancora più significativa e importante, una vita più vita, a cui appartengono. Questa è la loro autentica, vera appartenenza: quella della civitas celeste.

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