Una parola per gli «smarriti di cuore»

9 settembre 2018

LETTURE: Is 35,4-7a; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Di fronte alle difficoltà della storia, di fronte alla spietata durezza di molti suoi percorsi, fatti anche di mutilazioni e di condizioni spesso incompatibili con una vita degna, ciascuno di noi può correre il rischio di cedere a quella sorta di profonda disperazione che fa tutt’uno con la più desolante mancanza di fiducia nei confronti del Signore. In questa condizione di peccato e di morte spirituale, risuona paradossalmente gioiosa e trionfante la Parola consegnata al profeta Isaia proprio per gli “smarriti di cuore”. Una volta che la Parola stessa si è fatta carne, troviamo poi Gesù alle prese con la guarigione del sordomuto, per dare realtà a quell’antica espressione dell’intenzione divina. Il vangelo narra così il compiersi delle promesse fatte ai profeti. È parte di questo compimento, che la chiesa e, pertanto, ciascuno di noi riscopra e faccia sempre più propria quell’opzione preferenziale per i “poveri” secondo lo stile di Dio.

Il brano del profeta Isaia proposto dall’odierna liturgia della parola è stato scritto come per accompagnare il ritorno degli israeliti dalla deportazione in Babilonia ed è stato definito “inno alla gioia”, composto “in tonalità maggiore” (L. Alonso Schökel). Sarebbe tuttavia difficile attribuirgli un senso effettivamente condivisibile per l’uomo d’oggi, al di fuori di una solida fede nel Signore Gesù Cristo. Da chi infatti gli smarriti di cuore – che oggi fuggono dall’Africa crocifissa dall’avidità dei popoli più potenti o che, pur italiani, giacciono dimenticati ai piedi dei ricchi edifici degli eleganti centri abitati delle nostre metropoli – ricevono una parola di virile consolazione, che viene ad assicurargli che la vendetta divina a fronte dell’insensibilità violenta di tanti? Chi è in grado di colmare di gioia i menomati della vita, consentendo allo zoppo di saltare, in alto e con forza, come un cervo? Chi oggi è in grado di prendersi cura della debolezza dell’emarginato, ridotto comunque al silenzio, fino a far sì che il muto esploda in grida di gioia? E, infine, chi ridarà vita alla sterilità delle terre incolte, secche e inospitali come le nostre città, profondendo acqua in abbondanza, fino ad ospitare – traducono altri – “erba canne e giunchi laddove si sdraiavano gli sciacalli”? Solo in Gesù Cristo è possibile che gli “smarriti” incontrino la cura di Dio per chi è debole, ferito, ultimo e, pertanto, condannato a vivere nei margini sterili e inospitali della società – fossero le periferie più anarchiche o gli attici dei grattacieli, dove per ricercare potere e gloria si è persa ogni contezza di Dio e quindi dell’umano.

Il racconto evangelico illustra i tratti dell’azione di Gesù, che continua ordinariamente nell’azione liturgica e diaconale della chiesa. Anche oggi Gesù accoglie gli ultimi che i fratelli gli conducono perché trovino consolazione e forza, liberazione e guarigione o anche una semplice integrazione all’interno di una fraternità, capace di custodire la dignità e il valore di ciascuno. Nel dettaglio il racconto marciano sottolinea come quest’integrazione avvenga attraverso la guarigione degli organi della comunicazione: l’orecchio e la lingua. Aprendo gli orecchi del sordomuto, Gesù gli consente di ritrovare la sua condizione di uditore della Parola, capace di relazionarsi con Dio attraverso l’ascolto della Parola. Avendogli sciolto il nodo che gli bloccava la lingua, Gesù mette in condizione il sordomuto di annunciare la Parola ascoltata e custodita nel cuore, cooperando alla comunicazione della verità ricevuta in dono. Guarito nella capacità di relazionarsi con Dio, al sordomuto è offerta anche la possibilità di crescere nella relazione con i fratelli e le sorelle. Se il sordomuto può essere letto come l’immagine dell’uomo reso incapace di seguire Gesù a motivo del peccato e che riceve da lui la pienezza della sua umanità, la conclusione fa riferimento all’identità divina e messianica del Nazareno, proclamata indirettamente dalla folla. Al di là dell’imposizione del segreto messianico – Gesù infatti accetterà di essere riconosciuto nella sua identità più profonda solo sulla croce – la folla non può non riconoscere nel gesto di guarigione compiuto un segno manifestativo della realtà del guaritore. Come il Dio creatore, infatti, Gesù “ha fatto bene tutte le cose” (cfr. Gn 1,3.12.18.21.25.31) e come il messia salvatore promesso “fa udire i sordi e fa parlare i muti” (cfr. Is 35.4-5), attraverso il contatto – reso possibile dall’incarnazione del Verbo divino – e la saliva, simbolo dello Spirito santo. Si faccia poi attenzione a come non sfugge all’evangelista Marco, nel raffigurare i tratti dell’azione salvifica di Gesù, il riferimento alla passione e alla croce: nell’espressione “emise un sospiro” viene sottolineato il dolore che Gesù è chiamato a vivere per liberare l’uomo dalla sua condizione di resistenza. Un sospiro che anticipa il grido che risuonerà sulla croce e che simboleggia come la nostra salvezza ci è stata donata, ma ponendoci dal prospettiva del Signore Gesù certamente “a caro prezzo” (D. Bonhoeffer).

Il brano della Lettera di san Giacomo, ci ricorda che l’azione liberatrice compiutasi in Gesù non riguarda solo gli smarriti di cuore quanto alle menomazioni relative all’integrità della persona, ma tocca anche il nostro modo di relazionarci. La comunità deve pertanto lasciarsi alle spalle, con l’uomo vecchio, anche quei favoritismi personali fondati non sulla ricchezza della fede, ma sulla ricchezza materiale. L’opzione preferenziale per i poveri compiuta da Dio in Gesù e ricordata icasticamente dall’apostolo Giacomo, deve far parte dello stile di ogni comunità cristiana che intende effettivamente testimoniare il Crocifisso risorto. Lo stile riflette qui la qualità della sequela.