La croce nella sequela

30 agosto 2020

LETTURE: Ger 20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27

Come Pietro, che pensava di fare il bene del suo Signore rimproverandolo per l’annuncio della sua passione e morte, mentre in realtà non esprimeva altro che la resistenza dell’uomo a fronte del mistero della croce, così anche i cristiani, che nella sequela smarriscono la fiducia a causa delle inevitabili sofferenze che questa comporta e fanno di tutto per evitare la croce, finiscono per opporsi all’imperscrutabile disegno divino che vuole condurre alla pienezza di vita in Cristo. Infatti, come dice chiaramente il Signore Gesù, «chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». Ancora una volta si tratta di fede e soprattutto nel caso di questa pagina del vangelo secondo Matteo si tratta di fede rispetto ad una questione di vita o di morte, perché la questione cruciale qui posta riguarda il senso stesso da dare alla propria esistenza. La pericope evangelica è abbinata ad uno sguardo sulla dolorosa vicenda del profeta Geremia aperto dalla prima lettura e all’invito paolino, presentato nella seconda lettura, a offrire se stessi come espressione del culto spirituale, non conformandosi alla mentalità del nostro tempo, ma orientando il proprio giudizio in ordine alla volontà divina.

Non si potevano forse accostare alle parole di Gesù sulla croce, quella sua e quella di coloro che sono chiamati a seguirlo, parole antico-testamentarie più appropriate di quelle appartenenti all’ultima – e più cruda – confessione del profeta Geremia. Riflettendo sulla sua vocazione, sulla missione che Dio gli ha affidato a dispetto delle sue perplessità a motivo della giovane età, Geremia sembra riconoscere a Dio la prepotenza di un nemico che incombe sulla sua persona abbandonata alla sua dolorosa impotenza. Il Signore assume i tratti del grande seduttore e Geremia si concepisce come un’inerme che si è lasciato sedurre, come colui che ha ceduto alla violenza e alla prevaricazione divina, che gli ha impedito di sposarsi in quanto lo ha preteso tutto per sé. Questa drammatica dinamica seduttiva, tuttavia, trova una risonanza nel cuore del profeta stesso: un fuoco ardente per la parola del Signore, incontenibile e resistente ad ogni delusione, ad ogni umiliazione ricevuta, per mantenersi fedele al mandato divino. Dio gli ha riservato un apostolato estremamente difficile: deve urlare per dischiudere orizzonti di violenza e oppressione a coloro che non vogliono (e forse nemmeno possono) intendere. La stessa parola di Dio, avidamente divorata un tempo dal profeta, ora lo invade e pone Geremia contro se stesso e contro il suo popolo. È la parola di Dio che rende Geremia oggetto di scherno, che lo porta ad essere respinto e umiliato. Nel dolore, come di fronte ad un mistero impenetrabile, Geremia fa esperienza di come – per usare i termini di Gesù – la stessa missione di Dio, accolta con amore (insieme a timore e tremore), possa diventare una croce e una delle più pensanti e opprimenti.

La vicenda di Gesù è ancora più lacerante: il Figlio amato del Padre, colui che solo lo conosce, una volta inviato agli uomini per la loro salvezza viene respinto: gli anziani, i capi dei sacerdoti e degli scribi lo faranno soffrire, sarà poi messo a morte, ma risorgerà il terzo giorno. Persino colui che ha riconosciuto Gesù come il Figlio del Dio vivente – e forse proprio per questo – si oppone a questo disegno apparentemente assurdo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Dal punto di vista di Gesù, che non senza sofferenza aderisce integralmente al Disegno divino, il ragionamento di Pietro – ispirato a umano affetto e buon senso – suona palesemente satanico, in quanto teso ad evitare la croce in cui si realizza, ad un tempo, il più risoluto abbandono al Padre e il più generoso dono di sé ai fratelli. Su questa medesima via sono chiamati a collocarsi i discepoli di Gesù: non facendo più appello a sé come criterio di orientamento fondamentale per l’esistenza, sono piuttosto esortati a prendere su di sé la propria croce e a seguire il Signore Gesù. Voler salvare la propria vita, con criteri simili a quelli impiegati da Pietro per valutare le parole di Gesù, significherebbe perdere la propria vita, perché ognuno deciderebbe di sé a partire, non dall’obbedienza alla volontà del Padre e dall’amore per i fratelli, ma da un ripiegamento su di sé che impedirebbe finanche l’ascolto della Parola che viene dal Padre e delle esigenze dei fratelli. Affidarsi, a motivo di Gesù, alla volontà divina e donarsi per i fratelli significa, al contrario, trovare il senso profondo dell’esistenza e, al di là dell’inevitabile sofferenza ci chi vuole amare in un mondo ferito dal peccato, una gioia nuova e sorprendente. Al di fuori della sequela, che comporta l’assunzione della propria croce, non vi è vita, ma solo smarrimento e infatti «che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita»?

Solo a questa profondità possiamo intercettare l’invito paolino, espresso nella lettera ai Romani, a vivere il «culto spirituale», donandosi in unione al Signore Gesù come «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio». Parte integrante di questo culto, ispirato alla dedizione di Cristo, è costituita dall’accettare di ricercare la volontà di Dio, piuttosto che la propria, soprattutto nelle decisioni esistenzialmente più esigenti, prendendo distanza dal modo di pensare mondano, rispetto al quale occorre una decisa trasformazione e un rinnovamento radicale fondato sull’accoglienza della Buona Novella.

[/fusion_text][/one_full]]]>