Nemo propheta in patria”

8 luglio 2018

LETTURE: Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7b-10; Mc 6,1-6

La donna emorroissa ci ha offerto un modello straordinario di fede e di libertà. Dal fondo di un’esperienza umana così difficile, minata nella sua capacità di diventare madre, resa impura e quindi inavvicinabile e impedita a partecipare al culto, privata delle sue sostanze dall’incapacità dei medici, con fiducioso abbandono ha cercato un contatto, almeno superficiale, con Gesù e questo ha cambiato la sua vita: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tua male”(Mc 5,34). Subito dopo questo incontro ed aver risuscitato la figlia del capo della sinagoga, Gesù ritorna nella sua patria, a Nazaret.

Il contrasto è stridente: a un incontro che, con coraggio, apertura e libertà aveva riaperto la via della salute e della vita, qui la prevenzione, la forza dell’abitudine e la saccenza, impediscono di riconoscere Gesù e il Regno di Dio che con lui si fa presente. Eppure il suo insegnamento desta meraviglia, se ne constata la sapienza e neppure si negano le cose prodigiose che egli compie… ma non ce niente da fare: non c’è ignoranza peggiore di quella di chi crede di sapere! “Siccome ti conosciamo fin da quando eri bambino, conosciamo la tua famiglia, sappiamo che cosa sai fare e che cosa no, sappiamo perfettamente che cosa possiamo aspettarci da te. Di certo nulla di straordinario e non credere di abbindolarci con questa pretesa sapienza e con questa sospetta capacità taumaturgica. Chissà che trucco c’è sotto”. Più o meno così devono aver pensato e detto i Nazaretani. Purtroppo, convinti delle nostre buone ragioni, anche la noi pensiamo così: il nuovo ci insospettisce, soprattutto se proviene da dove non ce lo aspetteremmo, soprattutto se è celato dentro a ciò che ci è consueto. Le persone accanto a noi possono cambiare a volte in modo sorprendente, essere capaci di cose imprevedibili, ma noi siamo sempre gli ultimi ad accorgercene, se mai ce ne accorgiamo… Così, continuando a pensare di conoscere come stanno le cose e di sapere come vanno a finire, non ci apriamo alla novità che potrebbe raggiungerci e cambiare la nostra vita.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.  E subito dopo: “E lì non poteva compiere nessun prodigio”. La riflessione che si impone è amara, ma salutare. Buoni cristiani, da sempre frequentiamo la parrocchia, la chiesa; abbiamo fatto il catechismo, ci teniamo informati, partecipiamo anche – magari – a qualche incontro di formazione, a qualche corso di introduzione alla bibbia… Come si potrebbe non essere contenti di una tale esistenza cristiana, consapevole e convinta, seppur con le sue inevitabili insufficienze e contraddizioni… Eppure, proprio dove c’è la sicurezza offerta dall’appartenenza può celarsi la sicumera di sapere, il rischio di credersi esperti e detentori di verità. Ed è allora che si può credere di conoscere il Signore ed essere contemporaneamente incapaci di riconoscerlo, perché si è smarrita quella libera apertura al nuovo che permette di incontrarlo autenticamente. Equilibrio sempre delicatissimo, ma fondamentale per un’autentica vita di fede.

I lettori del vangelo sanno bene, se la loro è una lettura credente e non la ricerca di conferme a quello che già credono di sapere o di citazioni con cui dare forza alle loro argomentazioni, che il Gesù che vi si incontra è sorprendente e mai scontato. Ogni volta bisogna cercare di liberarsi delle precomprensioni sedimentate e provare a guardare con occhi nuovi. Proprio quello che i Nazaretani non hanno saputo fare, ed è il pericolo da cui Marco ci mette in guardia. Imparare a poco a poco a leggere il vangelo significa accettare di essere guidati nel difficile cammino del discepolato, significa imparare a poco a poco a non avere paura ed a lasciarsi andare. Significa iniziare a poco a poco a convincersi che tutto è possibile a chi crede, anche se ci sembra così strano, così difficile. Significa scoprire che Gesù solo, e non le nostre presunte certezze, è la fonte di una reale liberazione  e di un’autentica salvezza.

Quando sono debole è allora che sono forte”. Benché la lettura che stiamo facendo in queste domeniche della seconda lettera ai Corinzi non sia direttamente collegata con quella del vangelo di Marco, tuttavia provvidenzialmente quest’oggi la confessione dell’apostolo Paolo magnificamente commenta l’episodio del ritorno a Nazaret del Signore Gesù e del suo non-riconoscimento da parte dei suoi compaesani. Abbiamo visto che non c’è ignoranza peggiore di quella di crede di sapere, non c’è ostacolo alla fede così forte di chi accampa davanti a tutto le proprie sicurezze, le proprie convinzioni e a partire da quelle giudica tutto, compreso Gesù. Ebbene, Paolo fa una profonda – e misteriosa – esperienza di spogliazione interiore che lo mette nudo di fronte al Signore, la cui forza si manifesta pienamente nella debolezza. Come a dire che la grazia divina ha bisogno, per manifestarsi, di un luogo “debole” in cui entrare, che la logica di Dio è quella che privilegia il mormorio leggero della brezza rispetto al fragore del tuono e del turbine; che “Dio non apprezza il vigore del cavallo e l’agile corsa dell’uomo. Al Signore è gradito chi lo teme, chi spera nel suo amore” come dice il salmo 147.

Paolo ha fatto l’esperienza della sua debolezza, della fragilità della sua vita e proprio lì ha scoperto la presenza trasformante e liberante della grazia del Signore. È un ‘esperienza analoga a quella dell’emoroissa, di Giairo e della sua famiglia, di tanti altri, uomini e donne, che hanno vinto la loro paura e hanno cercato nell’incontro con Gesù vita e salvezza, disposti a permettere che lui cambi le loro esistenze. Proprio quello che gli abitanti di Nazaret non hanno saputo e voluto fare.