19 aprile 2019

LETTURE: Is 52,13-53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42

Questo è un giorno drammatico e solenne; un giorno in cui avviene qualcosa di «mai […] udito » per usare le parole che abbiamo sentito nella lettura dal profeta Isaia. La fede ce lo insegna, ma agli occhi della stessa ragione non sfugge come vi sia qualcosa che le va oltre, di cui coglie il profumo ma, lasciata a sé stessa, non il senso. La stessa liturgia che celebriamo trae la propria solennità dalla nudità dei riti: il silenzio, gli altari vuoti, i paramenti riposti sono i caratteri che la contraddistinguono; eppure, proprio attraverso questa estrema spogliazione le cerimonie appaiono ancora più intense, e ci parlano di qualcosa di più intimo e ancora più grande.

Questa paradossale maestà è espressa bene dall’affermazione che si trova nel racconto della Passione di Marco e Matteo, al momento supremo, quando gli evangelisti narrano che «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Allora, sentendo questo grido, pur a fronte dello strazio che vedeva, «il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”» (Mc 15,38). Ho trovato una poesia di un autore contemporaneo, F. Topping, che cerca di interpretare questa quasi paradossale affermazione dei vangeli: per un Romano, abituato ai suoi dei gloriosi e ai suoi schiavi miseri, che c’entra la divinità con la morte in croce? Il centurione, nel testo di questo poeta, racconta l’impressione che lui, abituato dalle molte croci e dalle molte battaglie ai gridi dei morenti, ebbe di questo grido: «Non ci fu mai una morte come questa e io ne ho perso ormai il conto…Non era un uomo sconfitto…Sulla croce, la sua battaglia era con qualcosa di molto più serio che le lingue amare dei farisei. No, la sua era un’altra battaglia. Alla fine emise un alto grido di vittoria. Tutti si chiedevano che fosse, ma io ne so qualcosa di combattimenti e di combattenti. Riconosco un grido di vittoria, tra mille». È il momento della massima spogliazione, della derisione, della solitudine e della sofferenza che ti uccide; ma proprio questo momento, è quello della massima gloria, dell’«innalzamento» (cfr. Gv 12,32): è il momento in cui Cristo vince il mondo e il suo principe, e riprende ciò che è suo fin dal principio, la sua creazione, la sua creatura.

Del resto, tutto il vangelo secondo Giovanni che abbiamo ascoltato, se letto con attenzione, ci mostra la signoria di Cristo. Fin dal Getsemani, dove nel dialogo con gli sgherri che sono venuti a prenderlo: «“Chi cercate?” Gli risposero: “Gesù il Nazareno”». Egli afferma la sua identità nascosta: «Appena disse loro: “Sono io”, indietreggiarono e caddero terra» (Gv 18,5-6). Essi cadono, di fronte alla potenza del Nome, perché la risposta di Gesù («Sono io») suona nell’originale greco come quell’«Io sono» che è il nome di Dio, il nome che Lui stesso aveva rivelato a Mosè dal roveto ardente (Es 3,14: «Così dirai agli Israeliti: “Io-sono mi ha mandato a voi”»). Nel racconto di Giovanni Cristo patisce e tuttavia regge l’intera l’azione: fino alle ultime parole, che di questa verità sono l’estrema rivelazione: «È compiuto» (Gv 19,30).

Ho trovato in un manoscritto medievale una raffigurazione eloquente, che riesce, nella sua grafica e nei suoi simboli, a tenere insieme i due capi di questo apparente paradosso di cui tutta questa giornata è tessuta, ma forse, potremmo dire, di cui è tessuta tutta la realtà del mondo ferito e redento. Vi si trova una miniatura divisa in due parti: nella parte più alta è posta la croce di Cristo che patisce, con il volto sofferente, il soldato che porta la lancia e un altro personaggio che porge la spugna. L’asse della croce prosegue però, senza soluzione di continuità, nella parte più in basso, divisa da una cornice, che si trova così trapassata dallo stipes crucis: in questa sezione sottostante, il legno trafigge una serie di animali mostruosi e al suo fianco una figura femminile ne colpisce e vince un’altra, inginocchiata e sconfitta. Le didascalie illustrano queste scene, altrimenti misteriose: «Calpesterai l’aspide e il basilisco, schiaccerai il leone e il drago» (cfr. Sal 90,13); «La superbia del diavolo è vinta dall’umiltà di Cristo». Ciò che è decisivo, ciò che è la realtà non vista, ma più profonda, è quanto solo gli occhi della fede possono vedere: quell’uomo in croce, coperto di sangue, di fango e di sputi, è in realtà il vincitore; e il momento della sua apparente sconfitta è in realtà il momento della sua vittoria definitiva che si renderà evidente nella risurrezione, e poi nel suo ritorno glorioso.

Siamo in primavera, tutto pare cominciare nuovamente. Gli spogli riti e i drammatici racconti di oggi, nella loro innegabile ma misteriosa solennità, di tutt’altra stoffa rispetto alla pompa e alle ricercatezze umane, ci insegnano che ciò che si compie sul Golgota, nell’apparente disastro, è una nuova creazione: è il centro di tutto il disegno di Dio; è la glorificazione del vero Adamo, di cui il primo Adamo è solo figura. Il libro dell’Apocalisse lo definisce con un’espressione vertiginosa, che dà conto della sua gloria eterna: Egli è «l’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo» (13,8). Fin dal principio Dio ha amato l’uomo fino alla morte, e alla morte di croce.

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