Impressioni dall’ultimo capitolo generale dell’Ordine dei Predicatori

Il capitolo generale dell’Ordine dei Predicatori celebrato in Asia questa estate, ha eletto il primo Maestro dell’Ordine che viene dall’Asia: fr. Gerard Timoner, della provincia delle Filippine. È facile trovare significati ulteriori in questa dislocazione nella guida dell’Ordine. Ho avuto la grazia di partecipare al capitolo, e posso confermare che questo mutamento di orizzonti geografici ha un fondamento nella situazione reale, non solo dei frati Predicatori ma della Chiesa stessa. Le chiese dell’Asia – come anche quelle dell’Africa – sono vitali, in espansione: e questo, come spesso è accaduto nei secoli che abbiamo alle spalle, avviene a fronte di situazioni difficili, quando non di aperta persecuzione.

Qualche dato può fornire un’impressione più precisa. In Vietnam i cattolici rappresentano circa il 10% di una popolazione di circa novanta milioni di abitanti; il governo della repubblica socialista esercita un controllo attento sulle attività ecclesiastiche, con restrizioni significative, ad esempio nel campo dell’educazione. Ciò nonostante, la diocesi di Xuân Lôc, nel cui seminario si è tenuto il capitolo generale, conta circa duecento seminaristi, a fronte dei circa quattrocento membri del clero diocesano; la provincia domenicana della Regina dei Martiri in Vietnam conta circa quattrocento frati, di cui quasi novanta in formazione: durante la messa alla fine del capitolo ventuno frati hanno emesso la loro professione solenne. I laici domenicani, molto attivi, sono circa centoventimila, mentre le suore domenicane di vita attiva, radunate in diverse congregazioni, arrivano a tre-quattromila. Se i numeri del Vietnam suscitano impressione, non devono essere sottovalutate le situazioni che si osservano in altre parti dell’Asia e dell’Africa, e in particolare proprio dove i cristiani vivono situazioni difficili: per fare alcuni esempi, la viceprovincia domenicana del Pakistan (dove i cristiani, non solo cattolici, costituiscono solo l’1,6% di una popolazione di circa duecentodieci milioni di abitanti) si sta consolidando e conta un numero significativo di formandi, pari alla metà del totale dei frati affiliati alla provincia; la provincia di Nigeria, numerosa e molto attiva, sta dando vita a uno sforzo notevole per aprire un’università a Ibadan. In situazioni più tranquille e solide, in Asia e in America latina, altre province guidano istituzioni universitarie di straordinaria rilevanza: fra queste, va ricordato almeno il caso della Catholic University of Philippinas–University of Santo Tomas, che per iscrizioni è la più grande università cattolica del mondo in un unico campus, e quello dell’Universidas Santo Tomás di Bogotà, a cui ora si affiancano altri campus in zone periferiche della stessa Colombia.

Questi numeri in realtà riescono a esprimere solo parzialmente l’impressione di vitalità e di crescita che si può avere dal contatto con le comunità di queste chiese, dalla partecipazione alla loro vita e alle loro liturgie e dalla verifica delle attività che sorgono per loro impulso.

Si tratta di uno scenario che, con i suoi sviluppi degli ultimi decenni, agli osservatori più attenti non è certo sfuggito; ciò che mi sembra meno scontato e più rilevante per i nostri orizzonti più vicini è tuttavia il ruolo che si delinea per l’Europa. Nel confronto con situazioni come quelle appena riportate, alle chiese del Vecchio Continente viene spesso assegnato un ruolo sempre più marginale, se non proprio residuale. Da un lato crollate nei numeri e colpite dalle crisi di identità seguite agli sviluppi degli ultimi decenni, dall’altro inchiodate alle difficoltà del confronto con tanto passato, esse non sembrano in grado di assumere nei loro contesti sociali e culturali un ruolo altrettanto vitale di quello delle chiese nei paesi dell’Asia e dell’Africa – spesso altrettanto minoritarie nelle proporzioni e osteggiate in modo ben più violento. A fronte di tutto ciò vi è chi rileva che, semplicemente, ora le priorità sono altrove. Un interlocutore, mentre dialogavamo di questi temi, ha significativamente utilizzato una metafora presa dal mondo dell’economia: nessuna azienda investe su mercati saturi ed esausti, quando grandi possibilità si aprono altrove.

Ciò che ho potuto constatare nel recente capitolo di Biên Hòa indica in realtà uno sviluppo diverso. Uno dei grandi temi delle discussioni capitolari è stata la ripartizione delle risorse. Più volte è stato ripetuto che le diverse province nell’Ordine non costituiscono una federazione, ma una comunione. Ciò significa che le risorse devono essere ridistribuite in modo più ampio e coerente e che devono innanzitutto circolare. Questo vale innanzitutto per le risorse utili alla formazione dei frati, per la formazione intellettuale in particolare. In larga misura, però, queste risorse si trovano in Europa, oltre che nell’America del Nord: ciò vale soprattutto per le scuole, in cui l’alta affluenza di studenti dei paesi africani e asiatici è una realtà che si osserva da anni. Ciò vale però anche per i docenti, di cui molto spesso è invocata la necessità nelle nuove istituzioni di questi stessi paesi.

Mi sembra che si evidenzi qui in modo tutto particolare un dato, che in realtà si può osservare su uno spettro molto più ampio di quello degli studi ecclesiastici: nello scenario di relazioni sempre più strette e movimenti sempre più veloci, fra le diverse zone del mondo e di un’economia in cui le zone di produzione e in qualche misura di ricchezza sono sempre più dislocate, ciò che l’Europa può offrire sono le sue consolidate istituzioni di ricerca e insegnamento nel senso più ampio del termine: non solo le scuole, ma anche ciò che le ha prodotte e che producono. Più in generale, credo che si possa affermare anche in una visione non esclusivamente segnata dalla fede cristiana che l’Europa ha un’eredità di pensiero e di riflessione nell’area delle discipline umanistiche («humanities»), che in realtà può – e forse in qualche misura, deve – diventare un patrimonio comune.

Vorrei richiamare qui una piccola esperienza personale, che tuttavia per me è stata importante per comprendere meglio i termini della questione. Mentre visitavo una delle molte chiese che abbiamo visto in quei giorni in Vietnam, ho notato che sui due lati del presbiterio era riportata una teoria di immagini, con scene rispettivamente dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Immediatamente, per abitudine mentale, ho cercato di capire il nesso fra i diversi episodi: quale fosse, cioè, l’interpretazione tipologica che, come di norma, era sottesa agli affrontamenti: ad esempio, alla Crocifissione corrisponde il sacrificio di Isacco, che la prefigura; al rapimento in cielo di Elia, l’Ascensione di Cristo al cielo, e così via. Si tratta di un programma iconografico comune nell’arte occidentale e che ha le sue radici più chiare nella riflessione teologica tardoantica e poi medievale. In realtà, con mia grande delusione, le due teorie di immagini della chiesa vietnamita obbedivano a una sequenza semplicemente cronologica e separata, senza corrispondenze, o almeno senza corrispondenze classiche o comunque evidenti. Da questo piccolo esempio mi è parso evidente che con strumenti ulteriori una chiesa così viva potrebbe generare esperienze ancora più significative; che, insomma, la grande vitalità dell’Asia chiede all’Europa quello che le è stato dato in lunghi secoli di riflessione sulla fede. Per contro ho pensato alle lotte per inserire, o almeno salvaguardare, gli insegnamenti storico-teologici nei munitissimi curricula elaborati dalle agguerrite commissioni delle università alle nostre latitudini: quale squilibrio, se non proprio quale spreco di risorse. Ricordando certi moniti di Francesco Saverio ai maestri di Parigi, ho pianto sulle mie fragilità e sul mio poco coraggio: quanto si potrebbe fare, in quei mondi così lontani e così affamati delle conoscenze che qui non trovano i loro spazi.

Di questa necessità, e più precisamente di questa richiesta di risorse, le discussioni capitolari, sia negli ambiti più precisamente legislativi che in quelli informali – spesso non meno significativi – hanno dato ampia testimonianza. Le provincie più giovani chiedono a quelle più antiche e consolidate di rendersi responsabili del loro bisogno di formazione intellettuale.

Questo quadro, che restituisce in realtà all’Europa di oggi un’identità e un ruolo – in termini teologicamente più precisi: una vocazione – necessita tuttavia di una precisazione, o meglio, della risposta a una possibile obiezione: non saremmo così di fronte all’ennesima, seppur pia, forma di imperialismo? O quanto meno, non sono forse questi strascichi dell’imperialismo occidentale dei secoli scorsi? Non vale forse la pena di provare a sviluppare nuovi modelli che trovino nelle culture dei paesi delle giovani provincie i loro presupposti, i loro argomenti, i loro sviluppi?

Non ho certo la pretesa di affrontare tutti i problemi che questa obiezione pone. Mi limito qui a proporre due rilievi. Da un lato, la situazione che ho appena descritto si situa in un quadro ben preciso: quello dell’Ordine dei Predicatori, che ha una tradizione teologica piuttosto definita. In particolare, per fare il caso più significativo, vi sono molti riferimenti, nel mondo degli studi dei frati Predicatori: certamente, il più comune e rilevante è però Tommaso d’Aquino; e vi sono molte letture di Tommaso, verso tendenze teologiche a volte fra loro in conflitto: ma raramente Tommaso, di per sé e nelle sue linee essenziali, è messo in discussione. È ovvio che questa eredità comune, radicata e sviluppatasi in Europa, abbia qui ancora – di nuovo, qui e in America del Nord – la più vasta e radicata tradizione di studi; ed è chiaro a questo punto che lì si rivolgano le provincie più giovani per trovare aiuto nella formazione intellettuale dei frati.

Il secondo rilievo è forse simile al primo, e però di più ampio raggio. Anche Tommaso infatti, come i grandi frati Predicatori del XX secolo ci hanno insegnato, deve però continuamente essere riletto, e il suo metodo, e ancor più le sue soluzioni, vanno sempre di nuovo fatti reagire nei nuovi scenari e con i nuovi problemi. I suoi scritti non possono essere presi alla stregua di libri di cucina da cui trarre vecchie ricette sempre buone – per altro, quasi sempre fatte passere attraverso il filtro dei suoi commentatori del XVI secolo. Se questo è valido per Tommaso, vale anche per la tradizione teologica che ci è giunta e che coltiviamo nei nostri studi. E tuttavia, se vogliamo rileggere Tommaso, dobbiamo prima leggerlo; e ciò vale anche per ciò che ci ha lasciato chi è venuto prima di noi, e ha riflettuto sulla Parola di Dio – o vorremo ricominciare ogni volta daccapo? Se il Signore non ha abbandonato la sua Chiesa, fra il I e il XXI secolo; se lo Spirito ha soffiato; se ci sono Dottori, esperienze, conflitti che qualcosa di significativo hanno detto: allora, se esiste un luogo che ha continuato a conservare e a coltivare questi doni, questo luogo, le sue chiese, hanno un responsabilità. Forse, ancora maggiore di quella di condividere altre risorse, delle quali sole non vive l’uomo.

C’è qualcun altro che è chiamato a farsene carico, più delle chiese, delle provincie, delle terre di Tommaso e Lagrange, di Chenu e Alberto? Forse, ancora prima della responsabilità di trasmettere, questo implica anche la responsabilità di continuare a elaborare: per conservare, per poter poi trasmettere. Forse, tutto questo ha a che fare non solo con le risorse di studio che altri ci chiedono, ma anche con le risorse, con l’attenzione, che noi destiniamo ai nostri studi.

fra Marco Rainini[/fusion_text][/one_full]]]>