La speranza della Chiesa nella storia procede dalla vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Per quanto l’attuale passaggio d’epoca – segnato dal perpetuarsi del conflitto per l’egemonia globale, attraverso la ripresa della corsa agli armamenti– possa turbare i cuori di molti, la chiesa continua ad annunciare la salda speranza di salvezza trasmessa dal racconto di quanto il suo Signore, il Crocifisso risorto, ha vissuto in obbedienza al Padre e per amore dei fratelli. La certezza di appartenere a Lui solo spezza i vincoli delle pseudo-speranze “mondane, troppo mondane”, che conducono progressivamente all’insinuante disperazione di chi oscilla tra il cieco ottimismo nei tanti mezzi di cui oggi disponiamo e il mortificante pessimismo di chi non sa gestire gli effetti collaterali di quegli strumenti. Lo sviluppo, quando non è integrale – e pertanto animato dall’affidamento alla grazia divina – porta l’uomo ad avventurarsi per sentieri caratterizzati da una conflittualità sempre meno evitabile, dove l’agire che procede da un’esistenza condotta nel segno della verità, della bontà e della bellezza risulta drammaticamente irrealizzabile. È per questo che la chiesa, nell’annunciare il Crocifisso risorto, è chiamata giorno dopo giorno a farsi “ospedale da campo” (papa Francesco), luogo di benedizione per le sempre più numerose persone radicalmente ferite e, peggio, scartate dalle relazioni che sono poste al centro di questa nostra cultura autoreferenziale. La cultura contemporanea risulta infatti molto spesso orientata al mero soddisfacimento di desideri dettati da impulsi che si esauriscono nel breve termine, con esiti non di rado aggressivi verso le persone e le comunità. Per tenere sempre viva la mega-macchina del consumo e della gestione della società di massa, questa “cultura” tende a frammentare e ad ostacolare la nostra già debole aspirazione ad impegni di lungo respiro, che richiedono un certo discernimento e lasciando così aperta lo spazio per logiche ispirate ad una diffusa volontà di potenza. Di conseguenza, la logica dell’affermazione di sé rischia di prevalere sul desiderio dell’essere per altri. Questa mentalità ci porta poi a temere ogni genere di relazione definitiva, in vista di rapporti sempre più liquidi e di finalità sempre più scheggiate che conducono le donne e gli uomini del “nostro tempo” verso la disgregazione interiore, la dissoluzione dei legami sociali e l’affaticamento relazionale. Realtà decisive come l’appartenenza alla chiesa o la custodia dell’unità familiare, la gioia dell’annuncio nel quotidiano o l’impegno per la giustizia sociale risultano così molto spesso mete auspicabili, ma irrealizzabili. Il mistero pasquale di Cristo non può non incontrare anche le forme che la disperazione prende in quest’epoca di passaggio e, se accolto liberamente, apre inediti sentieri di speranza anche oggi e per tutti noi. La fede nella risurrezione del Crocifisso nutre così quella speranza oltre ogni speranza, che conduce ogni persona – liberata dalla conoscenza della verità che è Cristo – ad amare come Lui stesso ci ha amati. Quando questa dimensione peculiarmente ecclesiale diventa espressione socio-culturale, si manifesta quella che il beato Paolo VI chiamava “civiltà dell’amore”. Condivisibile in linea di principio anche da coloro che non appartengono visibilmente alla Chiesa, questa prospettiva sulla realtà assumerà anche forma politica ed economica. Una speranza che ha i tratti visibili dell’impegno a motivo del Vangelo per la pace. Una condizione certo storica e fragile, ma che trova la sua solida realtà nella Gerusalemme celeste attesa dai credenti: «E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”» (Ap2,2-4). La Pasqua apre la via per il compimento eterno. Questa stessa speranza motiva l’impegno della comunità cristiana nella vita sociale, politica ed economica, nella perseverante e pacifica opzione preferenziale per gli ultimi in nome della fraternità dischiusaci dalla morte e risurrezione di Cristo.

Tale fraternità viene testimoniata, tra altri fedeli discepoli del Signore, dal vescovo domenicano di Orano (Algeria) Pierre Claverie, ucciso nell’agosto del 1996 – con l’autista musulmano Mohammed – dall’esplosione di un ordigno presso la sua abitazione. Verso la fine del gennaio di quest’anno, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sul martirio del vescovo Claverie e di altri diciotto sacerdoti, religiosi e religiose uccisi tra il 1994 e il 1996. Pur vivendo nell’Algeria oltraggiata dalla recrudescenza del terrorismo fondamentalista, il vescovo domenicano non ha per questo dubitato della vittoria del Cristo sull’odio, sul peccato e sulla morte. Era sua convinzione, sostenuta nella speranza dalla fede e dalla carità, che occorre vivere di Cristo, il quale «vuole liberare la libertà esorcizzando la paura: liberà di far la propria vita per ciò in cui si crede e per chi si ama. […] Tutto ciò non è possibile se non con la fiducia in un Dio che è la vita e che dà la vita, un Dio che si può chiamare Padre anche nella sofferenza e nella morte». Sulla base di questo profondo affidamento, pensiamo che il vescovo Claverie abbia vissuto i giorni precedenti al martirio nella consapevolezza che: «allo stesso modo di Gesù possiamo lottare contro le potenze della morte con le armi della vita: l’amore, la giustizia, la pace, la libertà, la verità, la fiducia e la compassione» (da “Attraverso la morte”, in Lettere dall’Algeria).

fra Marco Salvioli

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