Quello che ha fatto un santo. In genere noi commettiamo un errore madornale, molto grosso e piuttosto profondo, cioè quello di credere che ha fatto quello che ha fatto perché appunto è un santo. Parlare di lei, di Caterina sotto la visione o l’angolatura, come si dice oggi, della santità, sarebbe impoverire Caterina, perché non capiremmo assolutamente niente di lei.

Lei stessa come donna, come creatura umana, come figura appassionata soprattutto del cristianesimo rimarrebbe stupita, dico stupita, di quello che noi tireremmo fuori, delle parole che noi vorremmo mettere insieme tanto per dire ‘vogliamo fare un elogio di questa ragazza’ perché è una ragazza di Siena, per cui io mi limito a parlare di lei non solo sotto la visione della santa, ma sotto la visione di una creatura umana che si è trovata a cozzare in un modo terribile contro il cristianesimo o con il cristianesimo.

Perché c’è un problema, un problema che bisogna subito mettere al principio del tutto, che bisogna chiarire immediatamente, ed è questo:’ noi non possiamo accettare il fatto di un messaggio cristiano, di un contenuto vigoroso, addirittura rivoluzionario com’è quello del messaggio di Gesù di Nazareth, senza capire che questo messaggio viene a battere completamente contro la personalità di ciascuno di noi, per cui ognuno di noi deve saper dare prima o poi una fortissima risposta a questo messaggio.

Caterina nasce a Siena nel 1347, nella famosa contrada di Fontebranda, in mezzo all’unione artigiani di Siena. Suo padre Jacopo è veramente il grande presidente di questa unione provinciale degli artigiani del ‘300.

Lei non ha ancora l’idea di quello che le succederà, però intuisce, già sin dall’inizio della sua vita familiare che questo contenuto cristiano, questo messaggio che arriva da Gesù di Nazareth può forse, o senza forse, avere una sua incisività nella vita di ogni creatura umana. E l’interessante è questo: ciò che provoca in Caterina il ferimento o la dilacerazione addirittura che la porta in contatto così vivo, veramente in contatto profondissimo con il cristianesimo è il mettere in crisi Dio.

Non si è ancora scritto un libro, bisognerebbe scriverlo almeno una volta, che Caterina ha saputo avere il coraggio di mettere in crisi Dio. Dio non si tenta, non si deve tentare. Caterina lo ha tentato; è arrivata al punto di provocarlo e di metterlo nella posizione di dire e di fare che effettivamente il contenuto del messaggio cristiano valesse almeno due lire, valesse qualche cosa.

Il discorso è questo: è facile accettare una fede come la nostra fede, una fede cristiana robusta, responsabile, ben fatta con tanto di spina dorsale, ma non è altrettanto facile sfruttare questa fede, cioè provocarla perché scenda effettivamente nella realtà dei fatti di ogni giorno e di ogni creatura umana.

E la provocazione comincia addirittura all’età di sette anni.

Caterina ha un richiamo, stranissimo per una bambina di quell’età: dentro il suo piccolo mondo percepisce quasi una voce che non è la solita voce che possiamo sentire noi altri, non soltanto io, ma ogni cristiano, la famosa vocazione a realizzare in termini molto concreti un pezzo di cristianesimo. Lei sente un fascino tremendo per una figura che un giorno ha visto dipinta su un muro: non è il Padre Eterno, non è Gesù Cristo, non è lo Spirito Santo. E’ un frate, quel famoso frate che lei un giorno definirà ‘il dolce spagnolo nostro, Domenico di Guzman’. Cento anni prima quest’uomo aveva offerto alla Chiesa un’altra provocazione, la provocazione della ricerca della verità, la verità di Dio dentro l’uomo; non è una provocazione da poco.

Perché quando si prende un uomo e lo si obbliga a curvarsi su di sé per capire onestamente quello che può costruire nella vita come uomo, quando lo si obbliga a mettere fuori tutta l’intensità del tesoro che ha dentro, quel famoso tesoro che Dio gli ha offerto, si crea un tale sconquasso, una tale guerra dentro l’essere umano che non si ferma più.

E Caterina, davanti a questa figura di frate, accanto a questo Domenico, il suo dolce spagnolo, rimane affascinata.

Ed è strano vedere come a distanza di cento anni dall’esistenza di Domenico di Guzman, accanto ci sia una bimba di sette anni che capti lo stesso messaggio di provocazione verso la Chiesa, con la Chiesa, nella Chiesa, per la Chiesa e come in questa bambina si realizzi in modo formidabile quasi una nuova incarnazione, la presenza dello spagnolo.

Lei un giorno sta andando con il fratellino dalla sua contrada di Fontebranda verso la chiesa dei domenicani che è poco distante ed è lì che Iddio l’attende. A metà strada vede sul tetto della chiesa il Cristo. Ma il Cristo come ? Caterina lo vede in abiti pontificali, in abiti da Papa.

Non è una visione solita, normale, perché c’è di mezzo già tutto il tracciato della sua famosa vocazione per la Chiesa nel futuro.

C’è una donna nella famiglia Benincasa, Caterina è una Benincasa: questa donna è monna Lapa, la mamma che è gelosissima delle figlie. Ha tante figlie, tanti ragazzi e vorrebbe dare a queste figlie una bella posizione sociale, una bella posizione anche sul piano civile; poi l’ambiente artigiano di Siena può produrre effettivamente ricchezza.

Jacopo non è soltanto un operatore economico, è un accorto papà che cerca di mettersi a contatto con la realtà dei fatti , che cerca anche dei buoni legami sentimentali per le proprie figlie. Lapa ha messo gli occhi addosso a Caterina, quando si accorge che Caterina a sette anni incomincia a parlare del Cristo pontefice. Le dà fastidio; crede che la bimba sia non pazza, per amor del cielo, ma crede che la bimba sia ormai lontana da una realtà concreta e sia rimasta nel mondo delle favole dove d’altra parte ogni bimbo e bimba dovrebbe rimanere.

Ma nel medioevo ci si sposava molto giovani e Lapa pensa di dare un marito a questa Caterina che non è poi la famosa brutta ragazza che ci hanno tramandato i primi pittori, tipo il Vanni, questa ragazza quasi mostruosa dal viso che non dice nulla, dal viso che non offre nulla, lo sguardo ormai carico di morte. Caterina, onestamente, stando ormai al suo biografo fondamentale che è il suo confessore, il beato Raimondo da Capua, è una donna stupenda. E Lapa ci pensa: è un delitto lasciar perdere questo splendore e gettarlo in mano alla favola.

Lapa non sa ancora che si tratta del mistero di un fascino domenicano per la Chiesa, come non lo sa d’altra parte la bambina. La bimba non può rendersi conto di questo giro di affari non economici che Dio sta facendo sulla sua casa di ricchi artigiani. E succede quello che succede.

Improvvisamente questo famoso fascino di san Domenico, l’attrazione che lui provoca su di lei diventa addirittura innamoramento: Caterina si innamora dell’Ordine domenicano.

Direi vigliaccamente, parlando da cattivo domenicano, che è capitato al momento giusto. E’ capitato proprio nel momento critico, in pieno ‘300, quando il ‘300 dilaniava non soltanto la storia civile, non soltanto la storia economica, non soltanto e soprattutto la storia della Chiesa, ma dall’interno la storia delle famiglie religiose, dove di autenticità, e siamo soltanto nel ‘300, dove di autenticità non c’era più nulla.

Caterina sente questo richiamo di Domenico che diventa amore e sente che l’oggetto di unione di questo amore, il figlio che deve nascere, la realtà che bisogna saper produrre è soltanto l’Ordine che il dolce spagnolo ha messo al mondo cento anni prima, ma che si è fracassato nella società del ‘300; e si trova a disagio.

Ormai a qualche anno in più dei primi sette anni, è già arrivata a quindici anni. Si trova a disagio e non riesce a rendersi conto che è Iddio che le chiede di mettere veramente i piedi e le mani in questa famosa famiglia dove lei stranamente può incontrare due cose: Verità e Amore. Queste due realtà che poi diventeranno il suo sangue e il suo fuoco.

In quel momento si rende conto che non si può realizzare un contatto con un fascino come è quello provocato da Domenico se non si offre qualche cosa di personale. Bisogna pagare una tassa nell’amore. E lei offre il sangue, questo calore della propria esistenza la seguirà ovunque nella sua storia, e il fuoco.

Non era una donna gelida evidentemente, da buona toscana. Era carica di sole. Amava l’immensità della luce, per cui non badava soltanto così a fare delle tematiche, a tirar fuori delle argomentazioni.

Non avrebbe neanche potuto farlo perché era quasi analfabeta, era una illetterata. Però si rende conto in un modo formidabile, in un modo così concreto, che quando si ama è importante dare tutto di persona. Che cosa si dà di persona ? Sangue e soprattutto amore, calore, verità, fuoco. Queste due parole che continua a ripetere soprattutto in mezzo ai gruppi che verranno pian piano crescendo intorno a lei nel tempo e lasceranno sconvolta completamente la storia del ‘300, ma soprattutto la storia della Chiesa che verrà dopo, perché Caterina provoca quelli che seguiranno il Cristo ad offrire sangue e ad offrire calore, questo fuoco formidabile della propria partecipazione alla costruzione della vita.

Si taglia i capelli, rinuncia al grande sogno che monna Lapa aveva già ormai disegnato per lei, al ragazzo della vita, ad un amore umano, ad una famiglia. Strage di cuori in casa perché quando si accorgono che è senza capelli cade addirittura tutto quanto il senso della famiglia: Caterina è impazzita. E lei ride.

Da questo momento smette di pensare al proprio aspetto. Perché? Non perché deve fare penitenza, oddio, e no!, neanche per sogno, ma perché non ha più tempo di pensare a sé quando si accorge che è troppo importante mettere le mani, come dice lei in una certa lettera, dentro le viscere dell’uomo, tirar fuori queste viscere e porle davanti ai propri occhi perché l’uomo si renda effettivamente conto di quanto vale il tesoro di Dio.

C’è un contrasto molto forte con le Mantellate domenicane perché non potevano accettare una ragazza giovane, bella.

Lì entravano soltanto le signore anziane, questo, per amor di Dio, non per turbare l’equilibrio, ma perché c’era già tutto un dono totale di vita alla Chiesa che veniva fatto dopo un dono totale alla società. Caterina sembrava inesperta, Caterina sembrava acerba e allora è lei che va a San Domenico di Siena, davanti al suo dolce spagnolo e chiede che per favore le facciano qualche cosa. E il dolce spagnolo le manda il ragazzo che l’ha formata alla scoperta del senso domenicano della sua vita, del senso del sangue e del fuoco, Tommaso della Fonte, che è un domenicano giovane che si prende cura della sua coscienza e diventerà il suo primo magnifico confessore e che farà di tutto per ingraziarsi le dame mantellate che vestono di bianco e di nero perché prendano Caterina spiegando che Caterina non è né una bimba né una ragazza, ma è una strana signora piombata dal cielo chissà perché. Ed è bellissimo!

Lei entra, sempre ignorante, sempre quasi analfabeta, priva di una certa cultura fondamentale e si trova di fronte al problema terribile della Verità, perché l’Ordine Domenicano ha come motto fondamentale del suo cammino la Verità.

Noi oggi, a distanza di 800 anni, lo mettiamo negli stemmi gentilizi, nei piatti, sui tappeti, sui tovaglioli, noi domenicani. Però ciò non toglie che la Verità sia rimasta come tragedia di questa famiglia religiosa che in 800 anni di storia ne ha viste tante, tante di cose.

Ha visto tanti guai, tanti dolori, ma ha visto anche tanta santità.

E Caterina rimane sconvolta perché si trova di fronte alla realizzazione di questa Verità. Come faccio ? Adesso come mi comporto ? Perché non si accetta semplicemente così una strada, tanto più quando questa strada mi obbliga a curvarmi sull’uomo che è la più grande realtà della vita, e mi obbliga a dire a quest’uomo: ‘Facciamo il cammino insieme, costruiamoci insieme, cerchiamo di capire perché esiste nella Chiesa questo unico, magnifico comandamento che si chiama il Sangue e il Fuoco: la Carità. E allora comincia il suo tran-tran per la scoperta o la preparazione per la costruzione della Verità.

Prima di tutto si forma una cella interiore, non avendo uno spazio materiale; non è una suora di clausura, non è una monaca che vive in comunità, è una suora che vive a casa, in famiglia, una testimone modernissima di come si realizzi una spiritualità furibonda come quella domenicana a servizio della Chiesa in famiglia, in un ambiente meraviglioso come è quello degli artigiani, un ambiente di lavoro.

Ed è lì che Iddio l’aspettava. Incomincia a farle incontrare qualche frate domenicano, tra cui il beato Raimondo da Capua che diventerà il suo confessore, le fa avvicinare altri personaggi senesi della politica e della cultura. Notiamo che Caterina è contemporanea del Petrarca, del Boccaccio, di Jacopo Passavanti, di gente di questo genere, insomma. Contemporanea anche di certi eresiarchi abbastanza robusti. Tra tutti riescono a metterle davanti agli occhi questo terribile fatto ‘della lacerazione del mondo, di un mondo che non sta in piedi’.

E’ impossibile fare il mondo se non si fa l’uomo, è impossibile parlare di città se non si fanno gli individui, è impossibile parlare di famiglia se non si costruisce il criterio dell’amore.

E Caterina, anche se è analfabeta, capisce che è questo il discorso da fare. E dato che non ha più tempo, perché è già malata, di frequentare le università, di mettersi in linea sul banco di scuola ad imparare piano piano l’alfabeto, alla meno peggio che sia un alfabeto teologico, si mette a pregare.

Provoca un’altra volta Dio perché le offra, così tranquillamente lo chiede, con la massima disinvoltura, la scienza infusa. Ci sono voluti settecento anni perché la Chiesa si accorgesse che Caterina ha avuto la scienza infusa. E’ toccato al sovrano pontefice regnante, Paolo VI, l’incarico ambito, meraviglioso, di laureare Caterina dottore della Chiesa.

Ma Caterina non sapeva di essere dottore della Chiesa. Sapeva di essere una brava artigiana che mescolava i colori, che tingeva la seta e la lana. Una brava ragazza che pregava e che aveva una gran fame, una terribile fame di mettere insieme ancora una volta quella che era stata l’angoscia del suo dolce spagnolo. Non lo dimenticherà mai quel san Domenico incontrato su un muro a Siena e lo spiccica davanti a tutti quanti, questo suo ricordo.

E allora qui cambia pagina la sua storia; incominciano i contatti politici con i principi, con gli imperatori, con i cardinali, con i marchesi, con i conti, cioè con la gente che sa veramente come si costruisce una politica, una dirittura sociale.

Lei parla da pari a pari, discute veramente come se lei fosse a conoscenza di tutto, e la gente l’ascolta. La gente spalanca il proprio mondo intimo a questa ragazza umilissima, semplicissima la quale con la massima disinvoltura, ancora una volta, offre il desiderio del mondo di essere mondo, il desiderio dell’uomo di essere uomo.

C’era in quel momento terribile nella Chiesa cattolica una tragedia: il Papa non risiedeva a Roma, risiedeva da settanta anni ad Avignone ed era praticamente un suddito della Francia. Era uno schiavo morale del re di Francia. E Caterina incomincia a sentire questa prepotenza d’amore per la Chiesa.

Domenico spingeva dentro di lei perché lei potesse capire la Chiesa, quanto valeva questa Chiesa, questa Chiesa che è fatta da un grande fiume di uomini che tentano in comunione insieme di essere uomini. E questi uomini avranno un cuore.

Pietro ha messo il suo cuore là dove è stato sparso il sangue e il fuoco.

Queste due parole la polarizzano di nuovo: ‘in nome del sangue, in nome del fuoco’ prende, parte, lascia tutto e decide: ‘Vado io ad Avignone’ e ci vuole tutto!

Una brava ragazza, sì, certo, una santa religiosa dal punto di vista anche del codice domenicano, un’esemplare testimone di certe situazioni drammatiche come durante la peste quando lei si rivela veramente un’infermiera ad altezze vertiginose. Non stiamo qui a citare certi fatti che fanno tremare. Però noi oggi osanniamo Caterina da Siena come patrona delle infermiere.

Come si fa a convincere la Chiesa che ormai è tutta francese, nella sua curia, nel sacro collegio e soprattutto come si fa a convincere il re di Francia a lasciar partire un pontefice, francese pure lui, Gregorio XVI. E Caterina allora decide. Si chiude, non ne parla più, lei soffrirà per la sua Chiesa cattolica, questa Chiesa cattolica che lei vede quotidianamente riflessa sui volti della sua gente a Fontebranda, a Lucca quando si reca a Lucca a mettere un po’ di pace nel municipio, quando va a Firenze, quando va a Pisa dove nella famosa chiesina si trova a contatto con i suoi santi domenicani; mentre se li guarda rapita così dal desiderio di essere chiusa nella prigionia, nella solitudine, Iddio la punisce con il dono delle stigmate, Dio le offre la tragedia della Croce.

Caterina uscirà con le mani forate, i piedi forati e il ventre tagliato. E’ in quel momento che non si capisce più se è successo qualche cosa di tragico o se Dio le ha offerto effettivamente una forza terribile da sapere e da potere usare.

Si fa un esame di coscienza, ha vissuto diversi anni nella sua celletta, dentro, si è costruita una specie di riflessione nei rapporti con la Chiesa, ha voluto offrire alla Chiesa tutta se stessa come ha potuto, ha cercato di andare a parlare con i grandi del suo tempo, quelli che le stavano attorno per vedere se almeno una buona parola erano capaci anche di mettercela.

Per costruire insieme questa famosa comunione, questa famosa carità, questo famoso uomo che dovrebbe essere il grosso discorso della Chiesa e che non è, perché oggi facciamo lo stesso discorso del ‘300.

Allora facevano questo discorso, il discorso delle cose: è importante che tutti abbiano un letto, è importante che tutti abbiano un pezzo di pane, è importante che tutti abbiano un lavoro. Lo facciamo anche oggi questo discorso, con parole differenti, più violente, più drammatiche, però è lo stesso discorso.

E questa ragazza di Siena dice: ‘Ma perché la Chiesa deve perdersi dietro questo discorso di cose quando il suo è il discorso dell’uomo, quando lei deve ricordare semplicemente due cose: Sangue e Fuoco, cioè le due realtà che sono dentro l’uomo.

E allora ferita nelle mani, nei piedi, nel costato si rivolge al Cristo, al quale si sposa misticamente, si offre; fa prima un voto di verginità, ma poi si vuole sposare, decide: ‘Voglio anch’io avere una famiglia’. E’ inutile parlare del mistico sposalizio di Caterina con il Cristo come se fosse una cosa così. Lei ha sposato il Cristo perché voleva avere dei figli e questi figli li ha avuti attraverso tutti coloro i quali si sono radunati attorno a Lei e hanno osato pregare Iddio con lei perché la Chiesa fosse Chiesa.

E’ in quel momento che le è nato il nome di mamma ed è in quel momento che ai figli è venuto il nome di ‘caterinati’. Gente che veniva da ogni dove, ma gente appassionata tanto di Sangue e di Fuoco, cioè di offerta di vita, perché la Chiesa fosse Chiesa e l’uomo fosse uomo. Caterina ne ha avuto più che a sufficienza. Ha detto: ‘ Adesso parto io, vado io’, si è messa in viaggio. Ci vuole del coraggio, sapete. A noi sembra tutto molto semplice perché diciamo: ‘Santa Caterina da Siena ha fatto così’.

Si fa ricevere da Gregorio XVI. E’ bellissimo il discorso che fa al Pontefice: ’Padre, vi voglio virile!’ Quello rimane un po’ male. ‘Padre io voglio che tu torni a Roma!’ E’ tanto, è tanto! I cardinali non sanno se prendere questa ragazza e buttarla fuori, oppure accettare il momento umoristico della situazione. Alcune dame vengono, punzecchiano Caterina per vedere se è veramente quello che si dice una mistica. Ma lei davanti al Pontefice si sente talmente a contatto con la Chiesa talmente dentro nel Corpo della Chiesa, cuore del Cuore della Chiesa, vede che finalmente il suo Fuoco, il suo Sangue sono serviti a qualcosa e parla con tutta l’anima da buona senese e da buona cristiana e dice quello che le ha insegnato sempre nel cuore, quello che le ha dettato il suo dolce spagnolo, queste parole che lui avrebbe voluto offrire alla Chiesa, san Domenico. E offre questo messaggio a questa sua figlia e lei tenta la carta della disperazione, diciamo, o della provocazione e offre al Papa una cosa terribile: sa che il Pontefice ha fatto un voto segreto, di tornare a Roma. Nessuno lo sa, neanche il suo confessore, e il Papa crolla, decide il ritorno.

Caterina parte a piedi, il Pontefice invece prende una nave e si ritrovano qui a Genova, nella nostra Genova. Siamo nel 1377. Ed è qui che i cardinali francesi, qui a Genova, obbligano il Papa a ripensare alla sua decisione: ‘ A Roma non si torna. Il Papa è francese, la Chiesa è francese’. E Caterina dice: ‘La Chiesa è di Cristo. La Chiesa è fatta dai cristiani che vogliono offrire Sangue e Fuoco’.

Ed è il famoso mese in cui Caterina è ospite qui da Donna Orietta Scotti, nel nostro Canneto Lungo, al n. 14, palazzo Scotti. Il Pontefice è ospite nel palazzo arcivescovile. Una notte, questa famosa notte di un autunno genovese, una notte che dovrebbe essere messa lì come monumento della Chiesa cattolica, che Iddio tanto provvidenzialmente, non lo dico tanto per darci della cipria perché siamo dei liguri, ma provvidenzialmente Iddio ha voluto qui nella nostra città, in quella famosa notte il Pontefice smette tutti gli abiti pontificali, si veste in civile e va a trovare Caterina. Chiede a questa ragazza che cosa deve fare il Pontefice, il Vicario di Cristo, chiede a Caterina che cosa deve fare e lei ripete: ‘Vi voglio virile, Padre Santo’. Quel dolce Cristo in terra che lei adorerà addirittura e il Papa va a Roma. Un trionfo! Lei non c’è a Roma. Lei è lì nascosta in Toscana, sotto qualche albero a pregare, a cantare, oppure a regalare qualcosa a qualcuno.

La chiamano invece a fare un servizio da infermiera drammatica quando un giovane, le diranno, non vuole morire da cristiano. Si chiama Niccolò di Tuldo: un bravo ragazzo, però un delinquente. E a lei non piace, a lei non garba che un ragazzo così giovane se ne vada senza aver capito lo splendore di aver partecipato anche soltanto per un attimo alla Chiesa che è fatta di Sangue, che è fatta di Fuoco, dove c’è questo Cristo che è vivo, che provoca l’uomo ad essere uomo. E sapete la scena. Fin sul patibolo arriva poi,  quando lui mette giù la testa sul ceppo, lei allunga lo scapolare bianco e riceve il cranio, la testa di lui carica di sangue sulle bianche lane domenicane. Qui sembra addirittura un’assetata di sangue. Chi l’ha capita in seguito la dipingerà come una donna che effettivamente ha dato una testimonianza, ripeto ancora una volta, di provocazione ad ogni uomo di buona volontà perché metta in circolazione tutta la vitalità che ha, quando si accorge di essere nella Chiesa, con la Chiesa, e per la Chiesa.

Gregorio XVI muore. Viene eletto il Pontefice Urbano VI. Ma è in questo momento che la Chiesa si spacca in due. Eleggono un altro Papa, un certo Clemente VII, i soliti cardinali francesi, i quali non accettano assolutamente che la Chiesa si raduni nel cuore di Roma, là dove c’è veramente il sangue, il fuoco, il brivido della prima cristianità, là dove Pietro e Paolo hanno voluto essere massacrati in nome del Crocifisso di Nazareth. E lei difende il suo Papa di Roma. Parte da Siena, va a Roma, è ormai malata, non ne può più, e si mette accanto proprio alla famosa via del Papa, accanto alla basilica di S. Pietro, tra la basilica di S. Pietro e il convento della Minerva dei frati domenicani perché lei senza quel san Domenico, senza quel fuoco del dolce spagnolo non poteva vivere!

E si trascinava dietro tutti i giorni quel bianco e nero e faceva da consigliera al Papa. E Urbano VI le chiedeva tutto. ‘Come si può fare?’. E’ a questo punto che lei dice: ‘Niente, niente, non si può fare niente. L’unica cosa è seminare santità, tanta santità’. E pensate, è un momento tanto critico: sono divisi i cardinali, sono divisi i sovrani dei regni, sono divisi i santi. E’ il momento in cui noi domenicani abbiamo Caterina da Siena col Papa di Roma, san Vincenzo Ferreri col Papa di Avignone. Non ci si capisce più niente! Eppure Caterina accetta semplicemente di andare avanti con il desiderio di seminare sempre questo criterio dell’uomo.

‘Io voglio, io voglio, io voglio che l’uomo sia uomo’ e non si dà pace.

‘Seminiamo un po’ di santità, proviamo a provocare il sangue, a provocare il fuoco, qualcosa può anche capitare.

Ma non ha più tempo. A 33 anni, e siamo nell’aprile del 1380, Caterina muore a Roma. E’ il momento drammatico per la sua famiglia di ‘caterinati’, si sentono orfani, privi della mamma.

La portano dopo tre giorni di solenni esequie, la portano nella nostra chiesa domenicana della Minerva per il funerale. Strana cosa, chiedono ad un religioso, ad un certo padre Fantucci che non era domenicano di tessere il panegirico di lei, di parlare di Caterina, come avrei dovuto fare io stasera. Ma la folla incomincia ad urlare, ad urlare. E lui dice semplicemente: ‘ Come si può predicare, è impossibile. Meno male che Caterina ha parlato, parla e parlerà da sola’.

Ecco, prima di morire Caterina ha detto semplicemente due volte la parola ‘Sangue’, cioè Vita, cioè Calore. Vi lascio questo messaggio: ‘Sangue, caldo, caldo, la Chiesa ha bisogno di caldo, di gente calda, tanto calda’.

E a noi che siamo venuti dopo, tanto tempo dopo, ha detto che per fare l’uomo, per fare la società civile, che per fare la Chiesa vera, che per fare una famiglia, per fare una città, per fare un individuo che sia degno di essere un individuo bisogna arrivare a quello che ha detto Lei.

Basterebbe dirlo una volta sola, con un po’ di buona volontà, con un po’ di sentimento e soprattutto con tanta fede:

‘Io, io voglio’.

fra Renato VASCONI

29 aprile 1978