Nell’utimo numero di Divus Thomas dello scorso anno è apparso un interessante articolo di fra Luca Refatti, di cui riprendiamo le conclusioni

Il tema della disabilità suscita un crescente interesse da parte dei teologi. Esso fornisce un punto di vista interessante per pensare il rapporto tra Dio, l’uomo e il male. Inoltre suscita diversi interrogativi dal punto di vista antropologico, etico e pastorale, a cui i teologi cercano di dare una risposta. In questo cammino di ricerca, entro il quale si colloca anche il nostro articolo, è importante fare riferimento alla dottrina di san Tommaso d’Aquino.
Non esiste una sua specifica trattazione di questo problema. Sono però numerosissimi i riferimenti a diverse forme di disabilità che compaiono nella sua opera e di cui noi abbiamo considerato un’antologia significativa, ma sicuramente non esaustiva. Tommaso aveva, quindi, ben presente la sofferenza dell’uomo in tutte le sue forme, anche quelle fisiche e congenite, che vengono ricondotte al più ampio problema del male fisico. Per questa ragione abbiamo cercato, prima di tutto, di riassumere cosa l’Aquinate ha scritto sul problema del male fisico, quel male, cioè, che tocca il corpo dell’uomo. Una volta chiarito questo aspetto, abbiamo potuto leggere ed interpretare le principali occorrenze dei vari tipologie di infirmitas disabilitanti che ricorrono nelle opere di Tommaso.
Due sono, a nostro avviso, gli aspetti della riflessione del teologo domenicano sul male che sono indispensabili per comprendere ciò che egli scrive della disabilità. Il primo aspetto è l’idea che il divenire dei corpi (e quindi la loro corruzione e generazione) sia inevitabilmente connesso alla loro materialità. Ciò, di per sé, non è un male, poiché la contingenza dei corpi è conforme alla loro natura ed è una caratteristica che porta a perfezione il creato. Non si può dire lo stesso della corruzione dell’uomo che si manifesta nella morte e nella malattia. L’uomo è al centro della creazione ed ogni altra cosa è a lui finalizzata: la sua malattia, il suo dolore e la sua morte non possono essere spiegate come un ornamento alla bellezza del mondo. Tommaso trova una via di uscita a quest’impasse nel dogma del peccato originale. Nella sua trattazione spiega che l’anima umana ha bisogno di un corpo per poter conoscere, eppure, essendo essa immortale, soffre della sua corruttibilità. Dio, nello stato di giustizia originaria e cioè prima della colpa di Adamo, preservava l’uomo dalla corruzione del corpo, dalla morte e dalla malattia, ma questo stato di grazia è stato perduto a causa del peccato originale. In ultima analisi, quindi, l’handicap in tutte le sue forme è una conseguenza del primo peccato.
Il secondo aspetto cruciale è l’intuizione agostiniana che Dio permette il male perché è tanto potente da ricondurlo al bene. Per Tommaso la disabilità è una conseguenza del peccato originale; può essere una pena per i peccati dei genitori quando è congenita o del malato quando non lo è; è sempre sotto la cura della divina provvidenza, che consiste nella capacità di Dio di ordinare ogni cosa al suo fine, il quale, nel caso dell’uomo, consiste nella sua salvezza. In altri termini, la disabilità è un male che Dio converte in mezzo di salvezza. Per questo motivo, nel sistema tomista, l’handicap può avere un valore abilitante rispetto al raggiungimento del fine ultimo dell’uomo, la beatitudine eterna. Questa lettura della disabilità emerge con chiarezza da alcuni passi relativi alle principali forme di minorazione congenita che Tommaso conosce (il cieco nato, il monstrum e l’eunuco), con una significativa eccezione: l’amens, colui che è privo dell’uso della ragione.
L’amentia riveste un ruolo particolarmente critico per comprendere la concezione della disabilità di Tommaso. Questo è riconosciuto da coloro che hanno studiato questo tema, Romero e Berkman. Naturalmente, il motivo della criticità dell’amentia risiede tutto nell’importanza attribuita da Tommaso alla ragione. Il deficit cognitivo colpisce quella facoltà che è specifica dell’uomo e più determinante per il raggiungimento della sua felicità terrena.
Le conclusioni di Romero e Berkman, che dimostrano persuasivamente come un deficit cognitivo non determini per Tommaso una diminuzione dell’umanità del disabile né un impedimento al conseguimento del suo fine ultimo, per quanto inappuntabili, non esauriscono la problematicità che l’amentia ricopre all’interno della concezione tomista del male. Essa nasce dalla tensione che si instaura tra l’importanza attribuita alla ragione e la fede nella provvidenza divina che riconduce ogni male al bene dell’uomo. Se Tommaso non ritenesse la ragione un requisito fondamentale per la felicità terrena o se non credesse in un Dio provvidente, l’amentia non sarebbe un elemento aporetico. Invece nell’Aquinate troviamo la pretesa di affermare sia che la ragione è necessaria all’uomo per essere felice, sia che Dio permette il male potendone trarre il bene. Dall’amentia non è possibile trarre la felicità dell’uomo su questa terra, perché ciò che viene a mancare è proprio la condizione necessaria alla felicità. Bisogna, allora, ammettere che l’infelicità strutturale mondana del disabile mentale è funzionale alla sua felicità celeste. Ma è difficile spiegare come l’impossibilità di usare la propria ragione possa giovare alla salvezza del malato. Essa preclude la libertà di pensare e di agire o di espiare consapevolmente e, persino, di peccare. Se l’amens si salva, ciò avviene nonostante la sua malattia, non anche grazie ad essa. In una parola, la questione che Tommaso non affronta e che si pone problematicamente rispetto al suo sistema di pensiero è l’inconvertibilità della disabilità mentale al bene dell’uomo. Il deficit mentale rimane handicap, non solo rispetto alle relazioni con le altre persone, ma anche rispetto a Dio. Come Dio possa fare di quella malattia che priva l’uomo dell’uso delle sue facoltà più importanti uno strumento di salvezza rimane un mistero, che Tommaso non affronta e che interroga la nostra fede.
Berkman scrive che proprio questa impossibilità di peccare rende il disabile una «icona sacramentale della vita divina». Non ci sentiamo di condividere questa conclusione. Dio, come sosteneva il Grande Inquisitore di Dostoevskij, vuole essere scelto liberamente. Riteniamo più corretto lasciare speculativamente aperta la questione. Da un punto di vista personale, di fronte allo “scandalo” dell’amentia, a noi non resta che la fede in una onnipotenza divina capace di ricondurre al bene anche il più terribile dei mali, attraverso vie che la nostra ragione non conosce, la speranza di poter contemplare la miracolosa opera di questa onnipotenza e la carità verso i malati, che nella loro sofferenza sono una autentica immagine del Cristo coronato di spine.

fra Luca Refatti