di Fabio Bodi

Poco prima che mia madre morisse le comunicai che sarei andato a Salamanca.

– Cosa vai a fare a Salamanca? – Mi chiese.

– Discutono una tesi… su di me. – Le risposi.

– Hanno una facoltà di psichiatria a Salamanca? – Concluse lei.

Mia madre godeva di un cinismo rurale, un cinismo che mi ha giovato molto nella vita, ma la facoltà in questione era quella di teologia e la neurodeliri, per una volta, non centrava. Rimane il fatto che, in un modo o nell’altro, una qualche relazione con la teologia io ce l’ho. Niente di importante, per carità, in altri tempi, e in altri luoghi, sarei stato una specie di rabbi del villaggio, uno che insegna il Talmud ai bambini per intenderci.  Difatti insegno religione. Sono entrato in una tesi di teologia dalla porta di servizio giusto perché si parlava di arte. A suo tempo infatti ho studiato da pittore, ho frequentato la bottega di un maestro e per vivere ho fatto l’illustratore, l’artigiano, il maestro di bottega, la pubblicità e quant’altro. Insomma ho fatto il pittore. In tutto questo però ancora mi faccio una domanda: ma io che faccio di preciso, chi sono?

Hai mai pensato a cosa diventerai da grande? – Mi chiedevano quando ero piccolo.

– Cosa diventerò? – Rispondevo io. – Vuol dire che non sarò più io?

Ora in effetti sono grande e mi sento ancora quello ero da bambino, però non lo so chi sono. Ma cosa centrano queste domande con la tesi di Salamanca? Beh, c’entrano perché tre anni or sono due frati della provincia spagnola sono venuti a Torino per “vedere chi ero” e devo proprio dirlo: anche io ero

curioso di vedere “chi ero”. Difatti anche se sappiamo chi siamo sono poi gli altri a dirci “chi siamo” e questo in fondo è il senso degli altri, è il senso di vivere in una comunità. Fra Felix a quel tempo lavorava ad una tesi sull’arte e sulla predicazione e fra Louís era il suo relatore. Così a luglio sono partito per Salamanca per assistere al dibattito che riguardava il maestro fr. Kim En Joong, sr Gemma Morató e il sottoscritto: un religioso, una monaca e un laico dell’Ordine di san Domenico.

A luglio di quest’anno mi trovavo nel caos di un trasloco e quando è stato il momento di prendere un libro da leggere in viaggio, non ho trovato nulla, ma tutt’altro e guarda caso mi è finito in borsa un vecchio testo di antropologia: “Il senso degli altri” di Marc Augé.

– “Le categorie costitutive dell’individuo – dice Augé – sono il risultato della tensione tra essere e relazione”.

Ecco cosa diventerò da grande! Diventerò quello che già sono in mezzo alle persone che incontrerò (la tensione tra essere e relazione). A Salamanca avrei incontrato delle persone, sarei diventato una volta di più quello che già ero; questa è la vita. Sono arrivato nel convento di san Esteban di notte, mentre tutti dormivano. Fr Felix e fr Louís mi hanno aperto il chiostro e  sono precipitato nella magnificenza espressa nella pietra, un luogo enorme, con misure a cui non ero abituato. Salamanca è una città bellissima e il convento dei domenicani è grandissimo.  Qui risiede una delle sedi universitarie più antiche d’Europa e la  più antica della Spagna, qui sul tavolo dell’aula magna si è

consumata la “dissezione” di tre domenicani… ancora vivi! Fra Manuel Ángel Martínez Juan, fra Louís Matamoros, fra Juan Manuel Almarza Meñica, fra Moisés Pérez Marcos, fra Julián De Cos Pérez compongono la commissione d’esame. Sotto fra Felix con la sua tesi. Anche se non so il castigliano credo di capire, perché si parla di “teología pintada”.

– Beleza – dice il rettore. – es uno de los nombres de Dios.

La bellezza è uno dei nomi di Dio, ma l’assenza di bellezza formale è oggi il segno di una crisi ecclesiale. Anche se è doloroso dobbiamo pur ammettere che mai nella storia sono state costruite chiese tanto brutte, mai la bellezza è stata tanto trascurata. Tante volte mi chiedo se vi sia mai stata una liturgia più triste. Io non capisco tante cose, è vero, ma certe domande me le faccio e mi chiedo: perché al posto del pane mettiamo al centro un microfono? Perché i sacerdoti scimmiottano dei pessimi talk schow? Perché c’è sempre qualcuno che canta a squarciagola negli altoparlanti? Non lo sanno che è impossibile cantare in coro se uno sbraita in un amplificatore? Di domande ne ho

tantissime, ma di risposte non ne trovo. Certo che è difficile fare delle cose belle, ma poi capita a tutti di fare cose brutte: sbagliare è umano. Di fronte ai nostri errori possiamo sempre dire: “ci abbiamo provato, ma non ci siamo riusciti”. Il guaio è che nemmeno ci abbiamo provato, che tutto il sacro viene messo lì, con malagrazia naturale, come se la ricerca della bellezza non avesse alcun valore nella vita della comunità.

Eppure quando le parole si spengono sono le immagini a sopravvivere e non è un caso che la furia iconoclasta del wahabismo cerchi di cancellare i segni di qualsiasi fede capace di arte. L’arte parla quando tutto il resto tace. Non è predicazione questa? Fra Felix ci prova, in questi anni ha trovato il tempo per raccogliere materiale, riflettere e scrivere di arte e di predicazione. Non indica una soluzione, ma un percorso. Non è possibile dire cosa sarà di questo lavoro, ma la provincia sembra credergli e la tesi è stata sigillata col massimo dei voti: Magna cum Laude. È stata un’avventura straordinaria, essere l’oggetto di una tesi di dottorato è una cosa inaudita e un po’ fa paura. Fa’ paura perché non so cosa posso fare, ma ora so che dovrei fare. Alla fine della relazione hanno parlato in molti, si sono alzati e hanno detto cose che non sempre ho capito. Ma nel contesto una cosa mi è chiara:

– Debemos transmitir la alegría de la Fe. – Ha detto una donna alzandosi in piedi. – El arte es la chispa capaz de hacer.

La “chispa” è solo una scintilla, ma è sufficiente per far scoppiare l’allegria. L’allegria nasce da una cosa piccola, dalla meraviglia, da quella capacità propria dei bambini e degli innocenti di stupirsi e di tradurre ogni cosa in un gioco, in un sorriso. Dobbiamo convertirci all’allegria e dobbiamo pensare che non è impossibile cercare la bellezza. Possiamo ancora rigettare il brutto che ci viene vomitato addosso. Ci serve poco, giusto una scintilla. Al rientro resto bloccato dodici ore all’aeroporto di Madrid, un “non luogo” come lo definisce Augé. Ho tutto il tempo di assorbire il brutto di un contenitore zeppo di pubblicità, di pessima cucina, di rumore e di noia e ripenso al motto della facoltà di Salamanca: “Quod natura non dat Salamantica non præstat”. Sarebbe a dire che se non ci sei, non c’è modo di farti. Ma è anche vero il contrario e cioè che se c’è qualcosa di buono è possibile farlo venire fuori. Ci vorrà del lavoro, dello studio, della preghiera, ma ecco che avremo di nuovo qualcosa da dire, un bello da tirare fuori e da lasciare lì, in modo che qualcuno un giorno possa ancora vedere che il Cristo era ancora presente nel mondo in cui abbiamo vissuto.