Paternità, vita religiosa e altri accidenti.

La vita religiosa è una polarità che riguarda ciò che siamo e ciò che dovremmo essere.
Dio ci ama per quello che siamo, noi un po’ meno, ma quando l’idea di Dio su noi coincide con la nostra abbiamo realizzato qualcosa di grande. Il cammino che sta in mezzo è la nostra vita religiosa e questo è il fine della nostra esistenza; ma perché comincio dalla fine?
Non lo so: forse perché per raccontare una storia è sempre meglio cominciare dalla fine. Alla fine dunque ho compiuto sessant’anni. Nella vita per tre volte ho fatto vent’anni, nel senso che per tre volte mi son ritrovato da capo senza sapere cosa fare e dove andare proprio come quando avevo vent’anni.
La prima volta che ho fatto vent’anni avevo vissuto come tutti, avevo fatto il liceo, la bottega, la promessa scout ed ero entrato nell’esercito. C’era mio padre e mia madre e tutto quello che fa la vita di un ragazzino compresa una guerra civile a bassa intensità con morti, feriti e un odio inveterato tra le parti. Poi iniziai l’università e tra i venti e i quarant’anni feci quattordici traslochi, cinque concorsi e sono entrato nell’Ordine. Era questa la mia vita: una vita religiosa in “una religione tutta larga”.
E con questo potrei concludere il racconto della mia vita religiosa: opus et domus, lavoro e casa, contemplazione, studio e predicazione. La vita di un laico, ma alla fine anche quella del religioso, è però debitrice al caso e ai suoi accidenti. Noi facciamo dei progetti, delle pianificazioni (anche buone per carità), Dio le rovescia e ci mette dove vuole: “ciò che Dio vuole, Dio lo compie”. Anche la mia vita in questo senso è stata un’avventura meravigliosa ed imprevista perché a quarant’anni io e mia figlia ci siamo ritrovati da soli.
Qualcuno di voi ha mai ascoltato quella canzone di De Gregori che si intitola la “Valigia dell’attore”? Ecco noi eravamo quelli lì: “Pronti a qualsiasi cosa pur di stare qua, siamo il padre e la figlia finalmente qua, siamo una grande famiglia, abbiam lasciato soltanto un momento la nostra valigia di là”.
Eravamo dunque il padre e la figlia, una grande famiglia: pronti a qualsiasi cosa pur di stare là dove eravamo. Ora la mia vita religiosa era tutta centrata su questo fatto, essere padre. Quando diventi padre capisci che dire Padre Nostro non è uno scherzo, che sei figlio e che se Dio ti ama come ami allora puoi anche non avere paura. La genitorialità è presa a carico di una responsabilità tremenda, io non so se la responsabilità sia la più grande forma di amore, so che a volte scambiamo il flusso dei sentimenti, il nostro humus emotivo con l’amore. Mi piace pensare l’amore come responsabilità e volevo essere genitore facendomi carico di tutti gli obblighi del caso.
Io però sono un uomo e il diritto di famiglia non ama gli uomini e questo, per una famiglia come la nostra, è motivo di timore continuo. Occorre essere disposti a qualsiasi cosa pur di rimanere qua come una famiglia, occorre scommettere contro tutto e contro tutti. Il mondo non è un posto facile in cui vivere, però io avevo da crescere una bambina e non potevo passargli la paura. In Africa si dice che per crescere un bambino non bastano i genitori, ci vuole tutto il villaggio. Ebbene anche se la mamma non c’era più il villaggio non è mancato e questo è il carattere della chiesa: essere un villaggio. Noi dunque non siamo mai stati soli, tutto il villaggio era con noi e non parlo dell’Oratorio salesiano dove Costanza, mia figlia, faceva l’estate ragazzi, degli scout dove ha fatto tutto il cammino, della parrocchia ove ha ricevuto i sacramenti, ma anche del quartiere dove camminava, dove incontrava gli stessi amici che vedeva in chiesa, il lattaio, il barista, il cartolaio, le compagne di scuola. C’è del vero nell’identità cristiana e c’è l’altro che come un ponte ti traghetta nella vita in Cristo; sangue e pane. Questa genitorialità mi ha costretto a diventare una persona migliore.
Qohelet dice che c’è un tempo per tutto, il midraš di questo mio tempo è stato mia figlia Costanza. Dio ci manda quello che vuole, quando vuole e noi non lo possiamo capire, noi non abbiamo il senso delle cose di Dio. Io credo che lei non abbia capito cosa succedeva, nemmeno parlava allora, ma alla sera componeva una famiglia con un orso grande, un orso più piccolo ed un orso piccolino. Una volta sua madre venne a trovarci all’uscita dell’asilo delle domenicane di via Magenta. Andando verso casa la bambina volle fermarsi in un caffè per fare merenda, si sedette al tavolo e disse: “fermiamoci qui, facciamo finta di essere una famiglia”.
Ecco cos’è un midraš, è una strada interiore in evolversi. Ecco la mia vita religiosa; e ognuno ha la sua. Come vorrei che anche le altre fossero così belle, perché per noi è stata un’avventura incredibile e bellissima. Lo so che sembra strano, ma è la vita! Ed è la tua: sempre la migliore delle vite possibili. Oggi sono priore della mia fraternita (il termine presidente proprio non mi va giù) e mi rendo conto che devo fare quello che facevo da padre ovvero rendere ragione del carattere promettente della vita, della vita religiosa per quello che riguarda la fraternita e della vita tout court per quello che riguarda mia figlia.
La vita religiosa è fatta di due cose: ciò che siamo e ciò che vorremmo essere e noi alla fine vorremmo essere ciò che siamo.
Oggi Costanza, mia figlia, vive in Catalogna; lontano e io sono rimasto solo. Ho ripreso la mia vita domenicana così come l’avevo pensata e vado più spesso nella chiesa di San Domenico a Torino e ho tanto più tempo per pregare e per studiare. Però noi ci siamo divertiti pazzamente, poi lei ha dovuto abbandonare il paese, nell’Italia dove tutti sono “presidenti” non c’è più posto per i nostri figli. L’ho seguita su Skype e così sono stato teletrasportato in Lettonia, in Francia, in California, in Catalogna e persino a porto Badisco in Puglia. Ho “studiato” con lei a Nizza, a Cannes, a Montecarlo, a Barcellona, a Riga, a Berkeley, e finalmente “abbiamo conseguito” il suo bac+3 (laurea triennale) e con quello un lavoro, lontano, ma reale.
Oggi Costanza ha 23 anni, io ne ho 61: lei è al primo step della sua vita, io ho compiuto per la terza volta i “suoi” vent’anni e sono di nuovo un ragazzino, perché l’età non è mai un fatto anagrafico e per il Signore siamo sempre dei bambini. Ricordate quando nel cap 21 del vangelo di Giovanni il Maestro chiama i suoi che sono ancora in barca e dice “paideia” (bambini) avete del companatico?” Che bella storia: il lago, la brace e il pane e l’idea che sia proprio Lui, ma con il timore di chiederglielo per non rivelare la nostra mancanza di Fede. Non ho idea di cosa sarà adesso, proprio come quando avevo vent’anni, ma sono qui con il calzare e la cinta, pronto a partire sempre che Lui lo voglia. Intanto resto qui, nella mia casa, dove al mattino accendo una candela per la preghiera, so che Lui la vede e viene quaggiù a litigare un po’ con me. Perché la vita religiosa di un laico è un piccolo fuoco, una traccia quasi invisibile, ma necessaria perché la vita cristiana è vita semplice, una traccia minima lasciata in strada perché qualcuno la veda e possa “ritornare a casa”.
“Tu che sei parte di me e lasci fuochi, piccole tracce per riportarmi a casa. Tu che sei parte di me. Ultima luce, ultima insegna accesa.”

Fabio Bodi, Laico domenicano