L’uso della parola “carne” è delicato e ambiguo. Può essere intesa in senso restrittivo, riferita unicamente al corpo: la carne che si mangia o ciò che in noi viene considerato basso e volgare. Il peccato della carne è associato all’atto sessuale. Questa accezione risale all’apostolo Paolo, per il quale la carne è il luogo delle tentazioni e del peccato, di tutti gli istinti e gli appetiti che dominano la nostra natura. Tuttavia in Giovanni la parola “carne” ha un significato nobile, è al servizio del Verbo di Dio che viene a dimorarvi. Quando Dio si incarna, quando prende carne, non ne sceglie solo alcune porzioni, viene ad abitarla nella sua interezza. Se Dio ha scelto di incarnarsi, questo significa che la nostra carne non è né miserabile né degna di disprezzo.

Quando il corpo è fonte di sofferenza, di vergogna, quando la carne è guardata con sospetto – e le religioni hanno contribuito notevolmente a questo -, quando nel nostro mondo il corpo è esaltato e la sua immagine plasmata dalla cultura mentre al di fuori popoli interi vengono annientati e massacrati, non è forse urgente affermare il valore unico di ogni essere e restituire alla carne il posto che le spetta?

Tre assunti del cristianesimo, tanto importanti quanto folli, riguardano la carne: l’incarnazione di Dio, la resurrezione della carne e l’eucaristia. Si può credere proprio perché inconcepibile! Ne dovrebbe derivare, da parte dei  cristiani, un’infinita  sollecitudine per la carne.

Noi siamo fatti di quella carne universale, nella quale Gesù è entrato, che viene da Dio e a Dio ritorna, una carne comune agli esseri umani e che ci rende pienamente solidali con loro, ma soprattutto noi come singoli siamo fatti di una carne che dipende da tutto quello che ne facciamo, che decidiamo. Siamo di fronte alla responsabilità della verità della nostra carne.

Quando parlo di carne, non voglio in alcun modo contrapporla a un altro tipo di realtà, dell’ambito spirituale. Con la parola “carne” intendo la totalità dell’essere. L’unità indissociabile di tutto ciò che ci costituisce viventi e unici: corpo, spirito, anima, in telligenza, sensibilità, istinto, memoria, eredità molteplici, desiderio, storia, parola, tutto ciò che permette di essere al mondo e di dire: Io esisto”.

I nostri antenati più remoti, non appena hanno cominciato a reggersi in piedi, si sono posti le nostre stesse domande. Già allora stavano in posizione eretta e interrogavano il cielo, le loro mani erano libere, di abbracciare e di fare violenza, di levarsi in preghiera e di creare… Da alcuni milioni di anni gli interrogativi che occupano la testa degli umani sono gli stessi: dove stiamo andando? Chi cerchiamo? A chi rivolgiamo preghiere? Dov’è Dio? Chi è veramente? La ricerca e il grido dell’essere umano rimangono quelli di sempre, così come la sua inquietudine nell’accostarsi a Dio, vederlo e toccarlo. Allora egli lo confina in templi, o case, o tabernacoli, per rassicurare se stesso, tenerlo sotto controllo, stare tranquillo. Eppure Dio è anche – forse è soprattutto – altrove, in un roveto, in un deserto, nello spirare trattenuto di una brezza leggera, sul bordo di un pozzo… là dove non lo cerchiamo, là dove forse non vorremmo trovarlo, nella nostra carne, nel punto più debole della nostra carne.

Siamo perennemente alla ricerca di colui che può farci vivere. Siamo in questo desiderio di vita piena. Passiamo il tempo a cercare altri uomini o altre donne che finalmente possano corrispondere alle nostre aspettative. Tutti incontri, se veri, che ci servono e ci conducono più lontano. Approfondiscono anco­ ra di più la nostra sete, allentano un po’ la tensione causata dal nostro desiderio. Ci sono indispensabili, ma la nostra vita non dipende da questo. La nostra vita non può nutrirsi semplicemente di quella di un altro o di un’altra.

Chi mi farà da padre? Chi potrà salvarmi alla fin fine? Chi mi risparmierà la fatica di venire ad attingere l’acqua fresca nella calura del giorno? Chi accoglierà il mio pianto? Chi mi farà nascere di nuovo e nutrirà la mia esistenza? Chi mi porterà perché io possa attraversare la vita? Chi mi rialzerà?

Che Dio si incarni, dopo duemila anni abbiamo finito per accettarlo: la cosa riguarda soprattutto lui! Ma che la nostra carne, che è divenuta la sua carne, che la nostra debolezza, che è divenuta la sua debolezza, siano elevati nella gloria, in piena luce, al posto d’onore alla destra del Padre, questo è qualcosa più grande di noi e non l’abbiamo ancora accettato. Ci coinvolge troppo.

Quello che sovente trattiamo come un nemico, il nostro corpo, è destinato alla gloria. Non bastava l’incarnazione di Dio: bisognava che fosse sfigurato, che risorgesse, e non solo, ci voleva l’ascensione di Gesù per confermare questa dignità straordinaria della nostra carne che da quel momento può sedere alla destra di Dio.

La rivelazione di Dio nella carne dell’uomo non riguarda soltanto il piccolo gruppo di quelli che l’hanno conosciuto e frequentato in un ben determinato luogo duemila anni fa, ma assume una valenza universale. Quelli che hanno vissuto accanto a Gesù, che l’hanno toccato, conosciuto, sono in comunione con tutti gli uomini di tutti i tempi. Non c’è più bisogno di guardare il cielo, l’infinito è in noi, la profondità esistenziale è in noi, la matrice è in noi.

E la nostra carne di peccato, riscattata, o Cristo, nella tua carne, regna con Dio, è divenuta carne di Dio

(inno dei vespri per la festa dell’Ascensione, nel breviario secondo il rito domenicano

[Tratto da: J.-P. Brice OLIVIER o.p., Non avere paura del corpo, Qiqaion, Bose 2018]