Care sorelle e cari fratelli, sembra quasi una curiosa provocazione che proprio oggi la liturgia della parola ci proponga come protagonista del Vangelo, o meglio come coprotagonista insieme a Gesù, un sordomuto: proprio oggi, giorno in cui celebriamo la consacrazione di otto giovani nell’Ordine dei Predicatori, ci viene suggerito di meditare la vicenda di qualcuno che non può parlare; un uomo quindi che non è in grado di proferire una parola che sia una, ci è proposto oggi curiosamente come l’icona del frate predicatore.

Il racconto che ci propone Marco è ricco di parole incisive, di gesti evocativi, di numerosi dettagli stimolanti, ma sbaglieremmo se ci soffermassimo eccessivamente sui minimi dettagli: certo Gesù – ad esempio – mette due dita nelle orecchie del sordomuto, tocca la sua lingua con un dito appositamente inumidito con la saliva, ma questi gesti apparentemente per noi strani erano abbastanza comuni nella medicina popolare al tempo di Gesù, non solo in Israele, ma in tutto il mondo greco-romano. Non è quindi in tutti questi dettagli l’essenziale del racconto di Marco; per cogliere il senso di questo racconto e per capire come questo sordomuto guarito possa essere efficace icona del frate predicatore, bisogna che ci soffermiamo sulla parola che Gesù pronuncia – dopo che ha suggestivamente evocato, con lo sguardo rivolto al cielo, il soccorso della potenza del Padre: effatà, dice Gesù… apriti. Gesù dischiude la vita di quest’uomo a qualche cosa di nuovo, lo apre alla sua parola: la prima parola che quest’uomo sente è la parola di Gesù e solo dopo aver sentito questa prima parola di Gesù, allora impara a parlare. Lo sappiamo… ce lo insegna la medicina che il sordomuto sovente è muto perché non è mai stato capace di sentire una parola. Sembra quasi che quest’uomo abbia passato la sua intera vita precedente l’incontro con Gesù senza proferire una parola perché in attesa della parola giusta, la parola del Signore che lo guarisce e lo fa finalmente parlare.

Cari fra Alberto, fra Andrea, fra Tommaso, fra Giuseppe, fra Gregorio, fra Piergiorgio, fra Filippo e fra Pietro la vostra parola di frati predicatori deve diventare eco di questa prima parola del Signore, non deve avvilirsi nella vacuità, non deve contorcersi nei narcisismi del sapere, non deve abbruttirsi nella cattiveria e non deve soprattutto diventare obliquo strumento degli interessi più miserabili. Ricordatevelo sempre: quella prima parola del Signore grazie alla quale il sordomuto ha imparato a parlare non è una parola qualsiasi, ma effatà, apriti … e allora, solo allora, gli si aprirono gli orecchi e subito si sciolse il nodo della sua lingua; quella parola che – direbbe il profeta Isaia della prima lettura –  fa scaturire la nostra voce come acqua nel deserto è una parola che libera, che apre: la prima parola che il predicatore sente per poi diventare quindi fonte e prototipo della sua predicazione è una parola di libertà, è una parola di vitalità feconda, è una franca e onesta parola di libertà che esplode come un torrente nella steppa, direbbe ancora Isaia.

E badate… i voti che professate oggi e la vita regolare che oggi vi impegnate ad assumere sono strumenti di questa prima parola liberante. Non sono delle giuridiche costrizioni disumane che, vissute male, diventano delle frustrazioni che ci inaridiscono e ci incattiviscono. Noi vogliamo essere obbedienti, poveri e casti, vogliamo vivere una vita fraterna, di preghiera e di studio perché è questo il nostro modo ordinario per lasciare in noi tutto lo spazio possibile a quella prima parola del Signore che sa aprirci, liberandoci dalle nostre piccole cose, dalle nostre timidezze, dalle nostre meschinità, dalle nostre paure, dalle nostre storie talvolta sofferte. Effatà, apritevi all’amore premuroso del Padre e sappiate sempre rispondere a questa prima parola di libertà con una parola d’amore altrettanto premurosa. Allora sì sarete autentici predicatori!