E’ giunto il momento di uscire un po’ da un silenzio lungo ormai quattro anni. Un silenzio non verbale ovviamente, ma solo di penna. Scrivo alcuni appunti per dire grazie. A sessantadue anni sto vivendo un altro noviziato, quello in terra turca che non è certamente ancora terminato, anzi… vista la mia fatica quotidiana di apprenderne la lingua penso di chiedere al Signore un prolungamento dei miei giorni di vita. Quanto a lingue a volte mi sembra di essere atterrato nell’emisfero sbagliato visto il mio totale mutismo con l’inglese e i primi balbettii con la lingua turca. Mentre mi ero trovato subito a mio agio in terra brasiliana qui sul Bosforo sto ancora arrancando… ma nessun ripensamento o nostalgia perché veramente è un dono del Signore vivere ad Istanbul. Dico subito che nutro un’immensa gratitudine verso l’Ordine per quanto mi ha regalato sia in fratelli sia in esperienze in quarantaquattro anni di vita religiosa. Quante porte si sono aperte davanti a me fino alla Sublime Porta del sultano: dalla piccola corte della casa di campagna sono approdato alla corte del sultano! Ma non sono salito in onori perché l’onore più grande è di essere figlio di Dio, cristiano e fratello tra fratelli “in bianco e nero”.
Non lontano dalla nostra casa c’è il Gran Bazar dove mi imbatto spesso nei venditori di tappeti, gli splendidi tappeti dell’Anatolia, con i loro disegni variopinti. Penso al disegno che Dio ha tracciato sulla mia vita e che giorno dopo giorno si srotola davanti a me. Tutto è cominciato in un pomeriggio piovoso di novembre del 1962 quando durante un’ora di catechismo ho visto un frate vestito in modo strano, in bianco e nero. Per me i frati erano i conventuali del santuario Antoniano di Camposampiero(PD) che frequentavo ogni domenica…Quel frate era fra Francesco Pierbon, “il mio pescatore”, io avevo dieci anni. Nel giardino della mia vita, ho trovato fin da ragazzino questo granellino di senape… il desiderio di consacrami a Dio e come missionario. Il fuoco della missione lo ha acceso dentro di me il Signore, io ho cercato di mantenerlo vivo. A dire il vero è questo Fuoco che mi mantiene in vita. I miei viaggi per terra, per mare o in cielo non sono altro che una piccola risposta a questo dono che ho scoperto fin dall’inizio e che continua a riscaldarmi anche adesso che sto scrivendo da una stanza della nostra casa di Istanbul. Per me essere fedele alla propria vocazione è rispondere con tutto se stesso e in ogni momento al dono del Signore. Allora una vocazione non è migliore di un’altra, la differenza sta nella qualità della nostra risposta. I doni del Signore vanno coltivati e custoditi fino al giorno dell’esposizione che non sappiamo però quando arriverà. Vivere l’obbedienza per me significa rischiare l’esposizione, cioè avere il coraggio di manifestare i nostri più profondi desideri a coloro a cui abbiamo consegnato la nostra vita. Ma bisogna saper attendere. Ricordo che al termine del mio noviziato, all’allora provinciale fra Enrico Rossetti che mi chiedeva come mi sarebbe piaciuto servire l’Ordine, risposi: con l’andare in missione e con lo studio dei Padri. In realtà la prima porta che si aprì dopo l’ordinazione fu quella della formazione. Una porta per la quale sono passato per vari anni della mia vita. Quella della missione si è aperta all’improvviso: era l’ 8 marzo 1987 e vi sono entrato senza esitare…anche se non mi ha risparmiato giorni di mal di mare nella nave che da Genova mi portava a Santos, in Brasile. Un’esperienza di sei anni profondamente radicata nella mia vita: a saudade del Brasile non si cancella e sulla lavagna della tua vita impari poi a scrivere in modo diverso. Rientrato per obbedienza,sentivo spesso il richiamo della terra brasiliana e ho vissuto per un po’ di tempo una lotta interiore che si è placata quando mi sono detto “abbi fiducia nei fratelli e lasciati guidare da loro. Non rinunciare a esprimere i tuoi desideri, ma poi fai quanto ti viene chiesto”. Questo per me è stato un momento di purificazione che mi ha reso credo più libero per nuovi orizzonti che mi si sono spalancati dopo la ricca esperienza di maestro dei novizi. I dieci anni di Chieri sono stati indubbiamente un buon apripista per quanto sto vivendo ora specialmente nella dimensione contemplativa.
La porta turca, la Sublime Porta, che non è certamente quella del paradiso, si è aperta più lentamente ma sempre in risposta ad una richiesta di aiuto da parte dei confratelli presenti in Turchia,richiesta supportata poi anche dai Capitoli Provinciali. Vi dicevo più lentamente perché la prima richiesta di far parte di questa avventura in terra turca mi venne proposta nel 1998 da un caro confratello che ora ci onora come arcivescovo di Smirne. Da allora di acqua ne è passata sotto il mio ponte, ma per grazia il Fuoco non si è spento.
Più di un frate (e non solo) mi chiede: ” ma cosa fai lì in Turchia?” e ” come fai a combinare due colori diversissimi come il Brasile e la Turchia o l’ Italia e la Turchia?”. Quella della diversità è un’arte che noi frati predicatori “indossiamo” fin dall’entrata nell’Ordine. Cosa c’è di più diverso del bianco e del nero? La diversità da noi è di casa e dovremmo stupircene quando è assente. Ma è anche vero che oltre alla diversità, questo paese è anche “altro” per cultura e religione rispetto a noi. Geograficamente siamo vicini (due ore di aereo) ma culturalmente e spiritualmente siamo lontani. Non ci conosciamo o ci conosciamo poco e male. Un’altra domanda che mi viene posta è : ” Ma non hai paura lì?” Non sono un eroe e so che cos’è la paura. Non c’era bisogno di venire in Turchia per conoscerla da vicino. E’ normale e umano aver paura. Ma se cresco nella fiducia in Dio lascio un po’ alla volta il terreno della paura. Credo sia molto importante educarci e formarci ad una vita arrischiata (che è un po’ diversa da una vita spericolata). La nostra vita è fondamentalmente ” a rischio” nel senso che sei hai paura di giocarla o la tieni stretta, la perdi. Bisogna rischiare, sempre, … anche a sessantadue anni. So che in questo momento sto rischiando perché questa esperienza ha il sapore del chiodo. La prima volta che mi sono incontrato con il Nunzio mi ha dato il benvenuto con queste belle e incoraggianti parole: ” Ah, sei qui in Turchia? abituati a succhiare il chiodo”. Per tutti la vita è un rischio. Chi gioca in borsa, rischia. Chi si mette in viaggio in cerca di pace, di un lavoro, di una terra, rischia. Anche chi si innamora, rischia. Anche i trafficanti di uomini e di armi rischiano per far soldi. Noi invece viviamo o dovremmo vivere per il bel rischio del Vangelo. Il Vangelo ci è stato consegnato non per imparare a dormire bene, ma per restare svegli e svegliare la città. Qui, ad Istanbul ogni mattina alle sette si suona la campana: è un modo molto concreto per dire alla gente che la abita tutto il nostro affetto che si traduce anche in preghiera. Questo piccolo e breve suono si mescola a quello più familiare e prolungato del muezzin che invita alla preghiera e all’adorazione. Non siamo qui per conquistare o convertire ma per essere un riflesso della luce del Vangelo.
Quando ho appreso che la nuova porta che si apriva per me era la Turchia, ho scelto come giorno di partenza il 2 febbraio, festa della Presentazione al Tempio di Gesù, o festa dell’Incontro come amano definirla i greci. Ho capito che ero chiamato a vivere questo passaggio della mia vita come una nuova consacrazione, una nuova offerta al Signore. Consacrazione ad una nuova città, ad una nuova terra, ad un nuovo continente, l’Asia. E sono veramente felice di essere dove per la prima volta i discepoli del Signore furono chiamati cristiani. Con la viva speranza che il nome di Gesù sia sempre più conosciuto e amato in questo immenso continente. Solo questo è un motivo più che sufficiente per essere e rimanere in Turchia.
Giunto al termine di questi appunti di viaggio, mi accorgo che forse ho deluso un po’ le vostre aspettative; forse volevate più dettagli sulla mia( e nostra) vita in terra mussulmana. Ma per questo vale sempre l’invito evangelico: ” Venite e vedete”. Quanto sono riuscito a comunicare era solo per dire a chi è già su questa strada da molte ore che vale la pena proseguire il cammino insieme; e a chi è alle prime battute della strada di custodire e coltivare i “sogni” che Dio stesso mette con premura nel cuore.

fra Antonio Visentin