“Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra; Esaù arrivò dalla campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: ‘Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono sfinito’ (…). Giacobbe disse: ’Vendimi subito la tua primogenitura’. Rispose Esaù: ’Ecco, sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?’. Giacobbe allora disse:’Giuramelo subito’. Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe. Giacobbe diede ad Esaù il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò”. (Gen 25,29-34)
Davvero un racconto edificante! Tuo fratello ritorna a casa stremato dalla fatica mentre tu sei lì bello tranquillo a cuocerti le tue lenticchie. Neppure ti passa per la mente di andargli incontro, di salutarlo, di sapere come sta; figuriamoci chiedergli se ha fame. E alla sua richiesta di cibo -sta per stramazzarti davanti, non capisce più niente- non ti viene in mente altro che chiedergli in cambio la sua primogenitura? Certo che te la cede, in quello stato ti avrebbe dato qualunque cosa pur di avere qualcosa da mettere sotto i denti e calmare i morsi di una fame mortale… Ma tu, caro il mio Giacobbe, che figura ci fai? E come se non bastasse hai anche il coraggio di dirgli:”giura!” Bel esempio di amore fraterno, di generosità spontanea e disinteressata, di attenzione ai bisogni dell’altro che è questo Giacobbe! E il redattore ha un bel da fare a cercare una giustificazione –“a tal punto Esaù aveva disprezzato la sua primogenitura”(v.34)- la figuraccia resta. Resta come un marchio d’origine sulla persona che più di ogni altra si vorrebbe risplendere di ogni virtù, almeno nella memoria dei suoi discendenti.
Sì, stiamo proprio parlando di quel Giacobbe lì, quello che Dio stesso chiamerà col nome di Israele, il padre, nei suoi dodici figli, del popolo eletto. Ma tant’è, così ce lo presenta la Bibbia. Cerchiamo di capirci qualcosa in più, sicuri che, ancora una volta, la lettura attenta del testo ci libera da pregiudizi e da luoghi comuni e ci fa penetrare in modo sempre nuovo nel mistero dell’uomo e nel mistero di Dio.
La storia credo che la conoscano tutti, fa parte di quelle vicende così ben raccontate da essere patrimonio comune anche di chi la Scrittura la conosce poco. Allora: Isacco, il “figlio della promessa”, nato da un Abramo in tarda età e che ha causato l’allontanamento del suo fratello Ismaele, ha sposato una sua parente, Rebecca, e da lei ha avuto una coppia di gemelli, Esaù, il maggiore, e Giacobbe. “Isacco prediligeva Esaù, (…) mentre Rebecca prediligeva Giacobbe” (25,28). E’ già un bel quadretto famigliare, da cui è facile pensare che qualcosa di male debba venir fuori, qualcosa che ha a che fare con la gelosia e l’ambizione, con la rivalità e il desiderio di soppiantare l’altro. Giacobbe, che come abbiamo visto ha già carpito la primogenitura al fratello, su istigazione della madre carpisce anche la benedizione al vecchio e cieco Isacco, che lo crede Esaù. Ce n’è abbastanza perché Esaù pensi di vendicarsi dell’intrigante e odioso fratellino, il quale, su consiglio della madre, fugge lontano, dai parenti di Carran. Qui Giacobbe troverà lavoro e moglie – anzi due, Rachele e Lia – farà dodici figli e una notevole fortuna; scontratosi più volte con lo zio e suocero Labano, furbo e infido almeno quanto lui, infine decide di ritornare a casa.
All’inizio del viaggio verso Carran, davanti a un futuro incerto, e poi in quello di ritorno, quando si approssima l’incontro decisivo con Esaù e Giacobbe è davvero pieno di paura per sé e per i suoi, il nostro patriarca ha due esperienze misteriose, il così detto “sogno”della scala (28,10-23) e il notturno combattimento con l’angelo (32,22-33) da cui ricaverà il nuovo nome di Israele e la slogatura dell’anca che gli ricorderà per tutta la vita quel violento e misterioso incontro con il Dio dei suoi padri. In un modo straordinario, e su cui varrebbe la pena un’altra volta ritornare, il Signore si rivela a Giacobbe e gli dà la sua benedizione, manifestando così una predilezione e una fiducia del tutto immotivate. E’ come se Dio distogliesse lo sguardo dai suoi difetti, non desiderando altro che manifestare il suo amore.
“Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? Oracolo del Signore. Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù”(Ml 1,2-3). Questa parola di Dio che il profeta Malachia ci riferisce rimane lì, apodittica e inspiegata, a dimostrare la libertà assoluta e arbitraria dell’elezione divina. Lo abbiamo rapidamente visto: Giacobbe non è certo meglio di suo fratello, anzi! Per tutta la sua vita cerca il suo interesse, la propria tranquilla sistemazione, per tutta la vita nutre i suoi affetti particolari: Rachele, Giuseppe, Beniamino; per tutta la sua vita lotta con un Dio di cui ignora il nome ma da cui riceve un nome… Davvero Giacobbe è il nostro patriarca Israele, perché è il prototipo dell’uomo diviso in sé stesso, così come divisi e contraddittori siamo quasi tutti noi.
La vicenda dei due figli di Isacco fa correre il ricordo al primo esempio di questa immotivata scelta di un fratello al posto dell’altro: Caino e Abele (Gen 4,1-16). Mi ricordo che da bambino, all’inevitabile perplessità riguardo al gradimento del sacrificio di Abele pastore rispetto a quello del fratello agricoltore, le mie insegnanti di catechismo –delle brave suorine- replicavano dicendo che Abele offriva i migliori agnellini del gregge mentre il suo perfido fratello solo frutta marcia e verdura appassita: segno che una spiegazione bisogna pure darla, bisogna lavorare di buon senso o di fantasia per rendere accettabile un comportamento divino che non ha giustificazioni di alcun tipo: Dio predilige il sacrificio di Abele. Punto. Perché? Perché sì. Questa è l’unica risposta seria, che tira fuori Dio dalla nostra logica retributiva e lo lascia stare nell’assoluta gratuità delle sue scelte.
Però, a ben vedere, una logica – o perlomeno una coerenza – nelle scelte di Dio la possiamo intravvedere: si tratta dell’immotivata preferenza accordata al figlio minore. Ai primordi della vicenda umana questa predilezione viene subito messa in luce e poi continua a fare capolino, come un filo rosso che lega tutta la storia della salvezza.
Lasciamo pure da parte l’emarginazione di Ismaele rispetto a Isacco -solo quest’ultimo è il vero “figlio della promessa” e nasce dalla donna libera, non dalla schiava (cfr Gal 4,22-31)- ma subito il tema si riaffaccia con Esaù e Giacobbe; poi, di tutti i suoi figli Giacobbe predilige l’ultimo, Giuseppe, e quando questi gli verrà tolto lo sostituirà con Beniamino, come abbiamo appena visto. A sua volta Giuseppe avrà due figli Manasse ed Efraim e vale la pena di leggere che cosa succede: “Israele vide i figli di Giuseppe e disse:?Chi sono questi?’. Giuseppe disse al padre:’Sono i figli che Dio mi ha dato qui’. Riprese:’Portameli, perché io li benedica!’. Gli occhi di Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere. Giuseppe li avvicinò a lui, che li baciò e li abbracciò. Israele disse a Giuseppe:’Io non pensavo più di vedere il tuo volto; ma ecco, Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!’ Allora Giuseppe li ritirò dalle sue ginocchia e si prostrò con la faccia a terra. Li prese tutti e due, Efraim con la sua destra, alla sinistra d’Israele, e Manasse con la sua sinistra, alla destra d’Israele, e li avvicinò a lui. Ma Israele stese la mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito.(…) Giuseppe notò che il padre aveva posato la destra sul capo di Efraim e ciò gli spiacque. Prese dunque la mano del padre per toglierla dal capo di Efraim e porla sul capo di Manasse. Disse al padre:’Non così, padre mio: è questo il primogenito, posa la destra sul suo capo!’. Ma il padre rifiutò e disse:’Lo so, figlio mio, lo so: anch’egli diventerà un popolo, anch’egli sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più grande di lui.’(…) Così pose Efraim prima di Manasse.” (Gen 48,8-20).
Ecco che ancora una volta lo schema si ripete. Ma questa volta non si tratta direttamente di un intervento divino volto ad affermare una gratuita predilezione e neppure di un raggiro volto ad appropriarsi di privilegi altrui. E’ proprio Giacobbe, il ladro di primogenitura, che al termine della sua vita ha capito che, al fondo della sua storia personale e dietro le sue umane debolezze c’era comunque l’azione provvida e amorosa di Dio; e questo modo di agire vuole consapevolmente e non più in modo fraudolento imitare. Ormai sa che agli occhi di Dio conta di più il fratello minore.
Con Giacobbe-Israele si costituisce il popolo eletto, nelle sue dodici tribù, e al cuore della sua vicenda originaria c’è, ripetuta ben quattro volte, la predilezione accordata non al primogenito, ma all’ultimo, al più piccolo. Quando il popolo, secoli dopo, passerà alla monarchia e, dopo l’infelice prova del re Saul, Samuele dovrà consacrare l’unto del Signore, il nuovo re finalmente secondo i voleri divini, la scelta va a cadere sull’ultimo dei figli di Iesse, talmente insignificante da non essere neppure convocato per il sacrificio insieme ai suoi fratelli, il giovane Davide (cfr 1Sam 16, 1-12).
Di tutti i figli di Davide, poi, tutti l’un contro l’altro armato per succedere al padre, viene scelto Salomone come nuovo re: non è il primogenito, ma gli intrighi di sua madre gli spianano la strada. L’escluso Adonia così se ne lamenta con Betsabea:”Tu sai che il regno spettava a me e che tutti gli Israeliti si aspettavano che io regnassi. Eppure il regno mi è sfuggito ed è passato a mio fratello, perché gli era stato decretato dal Signore”(1Re 2,15). [Questa consapevolezza dei divini voleri non impedisce ad Adonia di essere ucciso da Salomone, appena salito sul trono e smanioso di assicurarselo a qualunque prezzo!]
Come il popolo è stato eletto non certo in virtù delle sue qualità ma proprio perché il più piccolo tra i popoli della terra, così Israele, in alcuni momenti –capitali- della sua storia, ha modo di conoscere ancora la gratuità dell’elezione divina constatandone la scelta quasi ostinata per il figlio minore, contro ogni affermato diritto di primogenitura.
“Lui deve crescere; io, invece, diminuire”(Gv,4-30). Con queste parole Giovanni il Battista parla degli inizi del ministero di Gesù; e con queste parole è come se tutta la storia antica di Israele si concludesse, aprendosi alla novità di Cristo. Ma possiamo in qualche modo scorgere, nella vicenda del rapporto tra il Battista e Gesù, il riannodarsi di quel filo rosso che abbiamo visto seguire fin dall’inizio la storia della salvezza: la scelta, il favore, la predilezione di Dio viene accordata al figlio minore. E “fratello minore” rispetto al Battista sembra proprio essere lo stesso Gesù, se consideriamo come incomincia il vangelo di Luca. Nei suoi primi due capitoli le nascite di Giovanni e di Gesù sono messe in parallelo, a formare un dittico in cui a poco a poco la seconda figura prende il sopravvento, fino a queste conclusive parole del Signore: “In verità io vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”(Lc 11,11).
Sempre nel vangelo di Luca, nella sua parte più tipica e originale, le parabole della misericordia, troviamo delineata la figura di un ultimo figlio minore, quel “figliol prodigo” così caro alla coscienza cristiana, in cui ognuno può riconoscersi e scoprire con lui la tenerezza immotivata e assolutamente gratuita del Padre.