“Oggi è nato nella città di Davide un salvatore, che è Cristo Signore”

24 Dicembre 2018

Is 9,1-3.5-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,10-11

Il profeta Isaia annunzia la nascita di un bambino, il discendente di Davide, che spezzerà il giogo che gravava sulle spalle del popolo, instaurerà la vera sovranità, sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Principe della pace. L’evento è interpretato dal profeta come il rifulgere di una grande luce. Paolo invece, rivolgendosi al discepolo Tito, parla della manifestazione della grazia di Dio e la interpreta come il principio della salvezza, che sostiene la vita battesimale del credente, fatta di rinuncia al mondo, vita virtuosa, attesa del ritorno del Salvatore. L’apparizione della grazia, fa tutt’uno con il dono che Gesù ha fatto della sua vita, in vista del nostro riscatto. Il vangelo è la pagina della nascita a Betlemme, in cui alla evocazione del censimento, voluto dai potenti del tempo, si contrappone la scena della famiglia di Nazareth, trasferita a Betlemme per la registrazione, il compimento dei giorni del parto, la nascita di Gesù in una mangiatoia per la mancanza di posto nell’albergo. La manifestazione dell’evento è offerta non ai grandi, ma ai pastori che dormivano con le pecore all’addiaccio. Gli angeli annunciano la nascita del Salvatore e come segno il bambino avvolto in fasce, giacente in una mangiatoia. L’inno degli angeli celebra la gloria di Dio in cielo e la pace degli uomini in terra.

Celebriamo la notte santa in cui le tenebre di questo mondo sono state squarciate dall’irrompere della luce divina in un oscuro angolo di mondo riempito dal fulgore celeste.

Non in stanze di palazzi sontuosi, non su letti d’oro e d’avorio, non tra effluvi di essenze odorose, fa la sua apparizione il Signore del mondo, ma in una umilissima stalla, dove la greppia funge da culla, il fieno da cuscino, il fiato degli animali da calore per lenire il rigore notturno. Il creatore del mondo, colui che ha il cielo come trono e la terra come sgabello dei suoi piedi, colui che chiude l’universo nella sua mano, trova posto nel più umile e squallido dei luoghi della terra.

Nemmeno l’albergo, il luogo adibito all’accoglienza degli umani, è disponibile per lui, che ha accolto tutti gli uomini donando loro la vita.

Ma forse è proprio in questo che sta la grandezza della notte che celebriamo nella memoria liturgica. Dio ha inteso fare la sua apparizione in tanto squallore, per trasformare la nostra bruttura nello splendore della sua gloria, entrare in tanto sfascio, per risollevare le nostre vite alla deriva, trovare ricetto tra i ruderi, perché le nostre case sbrecciate e divise si trasformassero in residenza del Figlio di Dio. Se la stalla maleodorante e inospitale, diviene la culla di Dio, allora ogni luogo potrà dirsi colmo della sua presenza e se Egli può stare in tanta strettezza, a maggiore ragione potrà riempire di sé l’angustia dei nostri cuori.

Certamente la scena del Figlio di Dio deposto in una mangiatoia è la cifra del soprannaturale che trascende i pensieri dell’uomo, invadendoli di quelli divini, sovverte i luoghi comuni, ribalta le scale di valore, dispiega nuovi orizzonti di significato.

Il mistero dell’incarnazione che vede il Dio onnipotente farsi un fanciullo impotente nelle mani degli uomini, è la medicina che ci disintossica dal veleno della violenza e della prevaricazione.

L’abbassamento del Figlio, nell’obbedienza alla volontà del Padre, il migliore antidoto contro l’orgoglio dell’uomo, che aveva pensato di divenire come Dio, trasgredendo al dettato del suo creatore.

La povertà che guadagna il mondo, è il farmaco contro l’illusione di salvezza in un mondo di cose e di beni materiali.

La Parola di verità e di sapienza, che si fa dono per la salvezza degli uomini, è l’epifania sublime della misericordia; il Verbo spirando l’amore divino, scioglie il ghiaccio dei cuori umani.

Iddio che si fa uomo, è cullato da una madre, balbetta, profferisce le prime parole, gattona, cammina, cresce in sapienza e grazia, lavora, si guadagna il pane con il sudore della fronte, è il segno che Dio ha voluto assumere in pienezza la nostra condizione (tranne il peccato), per riscattare in pienezza questo uomo ferito mortalmente dalla trasgressione.

Un dono sì grande si rivela, sin dagli inizi, agli ultimi e ai più umili. I pastori che stazionavano di notte all’addiaccio sono i primi ad essere raggiunti dall’annunzio festoso degli angeli. L’umiltà con cui il Figlio eterno si è fatto uno di noi, diviene anche la condizione di accesso a lui. Il simile è riconosciuto dal simile, il Dio che si è abbassato è riconosciuto da chi vive più in basso nella scala sociale, la povertà di Dio è compresa dai poveri, l’umiltà di Dio dagli umili.

Il segno offerto dai messi celesti è quello di un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Essi si porranno celermente alla ricerca di questo e resteranno meravigliati alla vista di questo spettacolo, divenendo a loro volti i primi testimoni di questo evento.

Gloria a Dio nell’alto dei cieli”. Così canta la schiera angelica, per sottolineare come tutta la storia della salvezza, che si compendia in questa scena, è per mostrare la gloria divina, la bellezza di Dio. L’intera vicenda salvifica che ha i suoi albori con la vocazione di Abramo e raggiunge il suo culmine nell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del nostro Signore Gesù Cristo, non ha altra ragione che palesare al mondo la grandezza di Dio nell’abbassamento, la sua potenza nel dono della vita, la sua infinita giustizia nella misericordia.

E il secondo stico dell’inno angelico continua, “Pace in terra agli uomini che egli ama”.  Non c’è pace, armonia e concordia che nel riconoscimento dell’amore di Dio, lasciandosi investire dalla ventata di grazia che promana da lui, come illuminare dalla luce abbacinante che scaturisce dal fanciullo divino.