O Signore, ci comandi di seguirti non perché tu abbia bisogno del nostro servizio, ma soltanto per procurare a noi la salvezza. Infatti seguire te, nostro Salvatore, è partecipare alla salvezza, e seguire la tua luce è percepire la luce. Il nostro servizio non apporta nulla a te, perché tu non hai bisogno del servizio degli uomini: ma a coloro che ti servono e ti seguono, tu doni la vita, l’incorruttibilità e la gloria eterna. Se tu ricerchi il servizio degli uomini è per poter accordare, tu che sei buono e misericordioso, i tuoi benefici a coloro che perseverano nel tuo servizio. Perché, come tu, o Signore, non hai bisogno di nulla, così noi abbiamo bisogno della comunione con te; infatti la nostra gloria è di perseverare e rimanere saldi nel tuo servizio. (Sant’Ireneo, Contro le Eresie, IV, 13-4; 14,1)

Dal Vangelo (Lc 10, 25-37):
Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?» Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».

1. La consolazione radicale: Gesù, il Volto Misericordioso del Padre.
“Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza” (Prefazio VIII)
L’ideale di Gesù non è la croce, ma l’ubbidienza al Padre: ubbidienza che implica il soffrire e il morire ma, lungi dall’esaurirsi in essi, termina alla vita, alla felicità, alla gloria. In altri termini, il fine è l’amore che nasce dalla fede nel Padre; il dolore rimane un valore “se e nella misura in cui” esprime e alimenta la dedizione personale nell’amore. Sotto questo preciso profilo, Gesù non è un caso di sofferenza, ma il caso paradigmatico, normativo, l’essenziale e irrinunciabile evento rispetto al quale ogni dolore trova senso (cfr. Col 1,15-17; Ef 1; 1Cor 8,6; Ebr. 1,1-2; Gv 1; ecc.). Egli è il senso, l’unico senso compiuto, del dolore dell’uomo.
Nel reperimento di tale senso si frappongono diversi ostacoli:
a) il titanismo, per cui penso di realizzarmi nella lotta eroica, parossistica contro il dolore. Eppure Gesù ebbe paura del dolore;
b) la rassegnazione, per la quale subisco passivamente o affermando che il dolore è in radice illusione, o sopprimendone la consapevolezza. Eppure Gesù non subisce, bensì sceglie liberamente e affronta il dolore;
c) la rivolta, per cui mi ribello a Dio, lo cito in tribunale, lo accuso. Eppure Gesù si lamenta, ma senza accusare il Padre
d) la disperazione, per la quale perdo la speranza e nego qualsiasi soluzione. Eppure Gesù non dispera, ma si abbandona con fiducia al Padre.

2. La consolazione ecclesiale: la fede celebrata (i sacramenti)
Gesù si pone con tre atteggiamenti fondamentali nei confronti dell’uomo nella sofferenza:
a) prega: Mt 8,2; 8,6ss; 9,27, ecc.
b) parla: Lc 6; Mt 5; Mt 9,18 e par; 11,20-24; Lc 10,13-15; 13,2-5; Gv 5,14; 9,3;
c) agisce: Mt 11,5-6; Lc 7,23; Mc 7,37; Mt 11,27-28; Lc 11,19-20; Lc 9,11; Mt 9,35; Mt 10,1-7; Lc 9,1-2; Lc 7,9.
ll Signore Gesù Cristo, medico delle nostre anime e dei nostri corpi, colui che ha rimesso i peccati al paralitico e gli ha reso la salute del corpo, ha voluto che la sua Chiesa continui, nella forza dello Spirito Santo, la sua opera di guarigione e di salvezza anche presso le proprie membra. È lo scopo dei due sacramenti di guarigione (CCC 1421) : la penitenza e l’unzione degli infermi.

3. La consolazione orante: l’intercessione e il sacerdozio benedicente
Lo Spirito santo geme con noi, ci sgrava di una fatica, geme in qualche misura al posto nostro e a nostro favore. Infatti non sappiamo esattamente che cosa sia buono chiedere per noi stessi, ossia ciò che corrisponde alla volontà del Padre nei nostri confronti. Questo pregare dello Spirito in noi e per noi è il soccorso, l’aiuto, il conforto che egli dà alla nostra debolezza.
Questo genera l’intercessione. In questo senso la preghiera d’intercessione da un lato assume i caratteri della vicarietà, cioè in qualche modo del «soffrire al posto di», sul modello insuperabile del servo di Jhwh, l’«uomo del dolore» (Is 53; cfr. 1Pt 2,21-25; Fil 2,5-11) e, dall’altro lato, trapassa nella solidarietà, precisamente nella compassione intesa come «soffrire con», «soffrire insieme».
Intercedere è: rendermi presente; mettermi in mezzo; stare lì; perseverare in ciò con pazienza e resistenza; essere disarmato, stendere le braccia, con niente da offrire se non me presente; rinunciare a priori a capire tutto, anzi accettare di non capire quasi nulla; stare in silenzio davanti a chi soffre (cfr. Is 53,7); dire tutto a quel Padre che sa ciò di cui i figli hanno bisogno (cfr. Mt 6,8); essere fiducioso nell’onnipotenza del Padre; non giudicare, non condannare, non maledire nessuno; non avere altro scopo che il bene vero del sofferente; essere investito dalla reazione di chi soffre; stare lì come le donne ai piedi della croce (Gv 19,25); entrare nel vivo delle sofferenze umane trasformandole.

4. La consolazione esistenziale: la compassione di Cristo – la compassione sacerdotale
La compassione: non è dire (o pensare) a chi (di chi) soffre: «Mi fai compassione!», nel senso più diffuso del termine; non è fingere di non accorgermi, «passare oltre dall’altra parte della strada» (Lc 10, 31-32), magari per non subire l’inquietudine che la sofferenza – ogni sofferenza – fatalmente insinua; non è (solo) benevolenza, cioè voler bene all’altro, volere il bene dell’altro, senza coinvolgimento emotivo: quasi che il vissuto emozionale fosse una sorta di pericoloso contagio che caratterizza una personalità non ancora matura e dal quale difendermi; non è (solo) beneficenza intesa come fare del bene, dare delle cose; non è beneficenza ad oltranza, un darmi da fare spasmodico, un trovare quasi piacere nel fare l’«opera buona», sì da aver bisogno di compiere sempre nuove buone azioni per sentirmi utile, essere quasi dispiaciuto che non succeda nulla che richieda il mio apporto per la soluzione.
La compassione è: la capacità concretamente realizzata di trovarmi intimamente colpito dalla sofferenza dell’altro; è entrare in comunione con la persona che soffre; è voler perseverare con fedeltà nella comunione con l’altro che soffre. Si tratta di «cambiare stato facendomi uguale al sofferente» (Kierkegaard, Esercizio del Cristianesimo I, 697.722). Per consolare il sofferente, mi faccio io sofferente: così la consolazione non viene dal di fuori, ma dal di dentro di me stesso. E cessa di esistere la sofferenza come astrazione, né esiste più unicamente la tua sofferenza: la tua sofferenza diviene mia, in ragione delle «viscere di misericordia» di cui Dio mi fa partecipe, e quindi diviene nostra; è soffrire e morire al posto dell’altro. Come ha fatto Gesù nel sacrificio della croce, perpetuato nell’Eucaristia, nell’attesa della felicità piena e senza tramonto, allorché «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo» (1Cor 2,9) saranno pura e beatificante realtà.