Cronache di un Capitolo Generale

di fra Pietro Zauli

I

Una sinfonia di suoni fra i lampi dei frettolosi scapolari bianchi: i bruni chicchi tritati, i cucchiaini che mescolano energicamente nella pallida ceramica, le voci ora chiare ora scure che si scambiano opinioni lungimiranti sul da farsi: “Ce n’est pas possible!”, “We have to make it possible!”, e le canizie dei frati professi da molto tempo alterne a quelle ancora nere dei più giovani…
Chi lo avrebbe mai detto… davvero un capitolo all’insegna del bianco e del nero, due colori che, se mi è permesso un gioco di parole, fanno da fil rouge di ogni singolo momento di questi ultimi giorni: dalla varietà policroma delle nazionalità radunate sotto le medesime tinte degl’abiti dei frati predicatori, alle numerose parole graffiate rapidamente su carta da appunti … ma, soprattutto, non ho mai veduto tanto caffè incappucciarsi di latte montato come in questi giorni. Tutti chiedono caffè: macchiato, stretto, lungo, cappuccini a non finire… “Mi potresti fare due gocce forti forti di espresso, il più italiano possibile, se è possibile” ci ha detto un imponente frate Polacco.
Non credo si possa esattamente parlare di dare da bere agl’assetati quando si tratta di un forte caffè: forse dovremmo parlare di dare adrenalina agl’assonnati, ma non si trova fra le ufficiali opere di misericordia corporale. Tuttavia ho trovato profondamente consolante una frase di un santo monsignore brianzolo: “Vanno ospitati in se stessi gli altri: l’ospitalità è far sì che un altro sia parte del proprio vivere. E, si badi bene, l’ospitalità è il sacrificio più grande dopo quello del dare la vita. Per questo difficilmente sappiamo ospitare davvero, e non sappiamo farlo neppure con noi stessi. Rendere gl’altri parte della propria vita è la vera imitazione di Cristo, che nella Sua ci ha talmente ospitati da farci membra del Suo Corpo. Il mistero del Corpo di Cristo è il mistero dell’ospitalità della nostra vita nella Sua” [Mons. Luigi Giussani, Il Rischio Educativo, p.55-56]. È vero l’ospitalità è non anteporre nulla al Cristo che è nell’altro. Il fascinoso mistero di quest’arte è la sua inderogabile richiesta di azzerarsi, l’ospitalità chiede di annullarsi: un ospite non deve sentirsi “ospite”, deve sentirsi a casa, soprattutto un frate di cui ogni convento è concretamente casa…
Basta davvero poco, allora, per imitare Cristo: un soffio d’aroma di caffè e cullare l’udito in una calda risata.

 

II

La celebrazione fu magnifica, ampia e maestosa, gradita a tutti e forse in particolar modo anche a quell’anonimo padre parigino che macchiava di quando in quando lo scenario del presbiterio con una pennellata del suo scapolare. Sì, doveva averla particolarmente gradita: si strofinava le mani raccolte al petto con un’espressione che pareva la versione astuta di Mr Bean. Gli era venuta un’idea… ora, col senno di poi, posso dire francamente: Dio ci salvi dalle idee dei Francesi.
La sua intenzione era quella di offrire dei brevi video che raccontassero la vita dei frati. Ma questi video dovevano essere girati con l’intento di creare al pubblico l’illusione di vivere in prima persona la nostra vita; così fu trovato un curioso escamotage: montare una telecamera su un confratello che fornisse al pubblico il suo punto di vista. Perfetto, originale… giusto giusto un paio di problemi: io dovevo essere quel frate (e non lo sapevo) ma, non solo, la scena non doveva essere realistica, ma reale… il che è ben diverso.
Così quella volpe di un francese mi si avvicina, alto e bianco, spiccando sull’atmosfera bruna e crepuscolare della sagrestia. Era rimasto affascinato dal fluido roteare del bacile del turibolo e gli serviva un attore (o un’eminenza grigia, come zuccherò il nostro padre francese… uno che gli prestasse i suoi occhi senza apparire). Del resto, il fumo aromatico, la macchia di fuoco che viva leoparda il carbone, la voce chiara dell’argento costituiscono gli ingredienti fondamentali per preparare un buon  milkshake  di mistero e sacralità. E chi non subisce il fascino del mistero?
Ma se in un qualche angolo della terra vi è qualcosa di curioso, immediatamente le televisioni ne falcano il cielo per compiere quella che oramai è l’ottava opera di misericordia: “I nostri ascoltatori hanno diritto di sapere”… (alcuni dottori della legge discutono ancora oggi se sia corporale o spirituale, ma un fine rabbino, non si sa bene se protestante, ha guadagnato consensi inserendo un terza categoria: le  opere di misericordia  virtuale. Fra queste bisogna ricordare: dare la propria amicizia su facebook a chi non ne ha, “piacciare” i post degl’infelici ed essere follower dei dimenticati).
Ora, bisognava filmare un momento liturgico, perché cosa più della liturgia è vita per un frate? Ma, come accennavamo, al nostro padre era venuto lo sghiribizzo del realismo: era tassativo che si dovesse avere uno spezzone di liturgia reale e quale occasione migliore del Vespro solenne con l’Arcivescovo Metropolita di Bologna, Sua Ecc. Mons. Zuppi (il quale, ovviamente, era ignaro di tutto)?
Di nuovo avrei dovuto fare il turibolo e fu così che, all’insaputa dei più, mi impacchettarono con tanto di fiocco una telecamera nera ed “invisibile” sulla cotta bianca: più che un’eminenza grigia sembravo la nuova versione 2.0 dei telettubbies, la più temibile… quella liturgica. Il Maestro generale, l’87° successore di san Domenico, appena  mi ha veduto, ha sgusciato due occhietti perplessi che pareva dicesse: “Ma chi è questo cretino?”. Tuttavia disse compostamente: “Ce n’est pas liturgique”, “No, guardi padre, lo penso anch’io, ma sa, sono solo un esecutorrr…”, “Ce n’est pas liturgique”. Ok, afferrata al volo l’antifona mi sono fiondato come un proiettile di fattura tedesca dal padre con lo sfizio del realismo. “Tutto, ok, tutto ok, non ti preoccupare”, fu l’unica risposta. “Ma lui ha detto: Ce n’est pas liturgique!?”, “Boh! Nessun problema, nella liturgia  beaucoup de choses ne sont pas liturgiques”.
Così ho fatto il mio ingresso come se nulla fosse in mezzo al folto dei presbiteri occhieggianti; doveva sembrare tutto naturale: a chi mi chiedeva: “Ma cos’è quella telecamera”, rispondevo con il saggio esempio di Igor in Frankenstein Junior: “Telecamera? Quale telecamera?”.
Sfumato il rossore del primo imbarazzo, potrei dire che il risultato è stato geniale. All’inizio non avevo inteso, ma col senno di poi posso dire coglie in pieno ciò che significa essere domenicano, ossia frate predicatore. Il predicatore non cerca di inculcare dottrine, né di propinare semplici informazioni, quasi fosse un tg-teologico (spesso poco aggiornato). Il predicatore è colui che vuole comunicare uno sguardo. Non è un semplice testimone, non si limita a riportare fedelmente quello che ha visto: il predicatore consegna fedelmente ciò che vede e gl’occhi con cui vede: ci fa indossare le sue iridi. Ciò che, infatti, fa innamorare le persone di qualcosa non è solo la cosa stessa (altrimenti tutti semplicemente amerebbero quella cosa) ma gl’occhi innamorati di chi la ama.
Alcuni potrebbero dissentire perché, se fosse vero, cioè se ad esempio Dio passasse sempre dagl’occhi di chi lo ama per farsi amare, ci sarebbe dovuto essere sempre un testimone e bisognerebbe risalire all’infinito, quando l’Altissimo, invece, basta a Se Stesso. Tuttavia, nessuno ama Dio se non ha fede in Dio. Mi viene in mente un celebre passo: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12, 44-45). La fede non è forse vedere Dio con gl’occhi di Cristo? Il nostro Dio usa una telecamera spirituale assai simile a quella del padre francese, una prospettiva capace di farci vedere l’Altissimo in prima persona.

III

È stato lo stupore a farmi riflettere, quella meraviglia che si pennella sul volto di un uomo quando non sa di avere un tesoro che inaspettato gli si schiude davanti. Un tesoro fatto di pochi mozziconi di travi abrase, di un pavimento dai lineamenti incerti e dagli scheletri ruvidi e rossi dei vecchi mattoni d’una cella. “S. Dominic died here, father Kenneth, here, where we stay now…”, “Really?! I didn’t know it… It’s very, very important for me, thank you, thank you very much, I find a treasure, a place for my prayer”.
Sì, furono gl’occhi trepidi di una composta gratitudine a farmi riflettere, due occhi azzurri, vegli e pallidi, incastonati nei lineamenti gotici di quel padre provinciale… una figura visivamente molto particolare con quell’espressione che fonde un che di vampiresco con un che di assiduo e saggio… quasi l’orma di un’antica inquietudine rasserenata nella preghiera. Se uno volesse pennellare sinteticamente il suo aspetto, dovrebbe dire che Dio si sia ispirato ad un inedito di Bram Stoker per disegnarlo… ma questo è solo parte di quel corredo immaginifico che aiuta a ricordare. La cosa importante fu la commozione tralucida di quello sguardo: quasi sempre l’abitudine porta alla scontatezza e la scontatezza al progressivo deprezzamento o quanto meno all’indifferenza.
Per noi frati di Bologna è normale avere il luogo dove il proprio fondatore ha consegnato l’anima al Padre. Il luogo di quell’estremo atto è, in fin dei conti, un angolo ritirato del convento, per altro esteticamente molto scarno. Così per vederne la sua invisibile bellezza delle volte bisogna fermarsi a guardarla negl’occhi dello straniero, vederla, vedendo la meraviglia di chi non ha la “fortuna” di potersi abituare al bello. Del resto lo straniero non è affatto un estraneo, al contrario, egli è la fonte della vera familiarità con ciò che ci è proprio, colui che, senza neppure volerlo, ci ricorda lo sguardo con cui guardare la meraviglia che ci appartiene, colui che ci insegna ad essere spettatori nuovi di ciò che abbiamo sempre sotto gl’occhi. Tutto, in fin dei conti, esiste da molto prima che noi ce ne accorgessimo: “C’è forse qualcosa di cui si possa dire: / «Ecco questa è una novità» ? / Proprio questa è già avvenuta” (Qo 1, 10), “non c’è niente di nuovo sotto il sole” (Qo 1, 9c) se non lo sguardo con cui possiamo guardare tutte le cose?