«Maestra, io mi farò prete»

Intervista a fra Pier Paolo Ruffinengo o.p. di M. G. Maiorino, scrittrice

All’ombra del campanile della bella chiesa settecentesca di San Domenico c’è un convento che, pur essendo nel cuore di Ancona, è seminascosto dietro la facciata anonima di una costruzione moderna, con le saracinesche sbarrate di locali in disuso segnati dal degrado.
Ma a guardar bene si scopre uno spazio, ora usato come parcheggio, dove cresce un vecchio glicine che mani pazienti hanno guidato a formare una tettoia, e sontuosamente fiorisce ogni aprile come portico d’ingresso dalla parte dell’abside, simile a un canto di lode al Signore.
E, al di là di un cancelletto, in un minuscolo giardino segreto una pianta di vite si innalza a fare pergolato su una parte della terrazza sovrastante, raccordo tra convento e chiesa.
Così, alzando gli occhi e salendo ripide scale, si arriva in quella specie di nido di preghiera che è la casa dei frati domenicani, i quali devono avere buone gambe a ogni età per raggiungere le loro stanze e la piccola cappella.
Biblioteca e salottino sono aperti agli ospiti e agli incontri, l’una disadorna ma ben fornita di libri e collezioni di riviste, l’altro accogliente nella sua semplicità, con cinque sedie imbottite intorno a un tavolino dove non manca una coppa di vetro con le caramelle; alle pareti alcune immagini sacre, su un ripiano un don Chisciotte in ottone vicino a una statuina della Madonna. Questo è lo sfondo della nostra conversazione.
La tua vocazione risale a quando eri bambino. In che modo ti sentisti cercato,chiamato dal Padre? Hai un ricordo particolare?
I ricordi più antichi di fr. Pier Paolo sono quelli raccontati dalla mamma: Esterino, ancora piccolo, voleva andare a dire messa.
Il mondo dei sacerdoti e della Chiesa costituiva uno degli elementi ‘normali’ del suo vissuto, perché la sua famiglia era profondamente religiosa. Il papà faceva parte della cantoria parrocchiale e il bambino insisteva per accompagnarlo eaiutarlo a cantare i Vespri. La mamma gli chiedeva: Ma sei capace? Canterò quel poco che so.
Era affascinato dalle figure del parroco e del viceparroco, ma lui non voleva solo assistere alla messa, voleva essere come loro, dire messa. E questo è già un ricordo consapevole.
Affiora poi un episodio preciso che risale alla seconda o terza elementare. “Ero stato messo in castigo dietro la lavagna, la maestra stava parlando alla classe della vita di un Santo, forse don Bosco che si diceva riconoscente verso la sua maestra, e disse: Chissà se avrò l’onore un domani di avere un alunno sacerdote! Io mi farò prete, dissi sbucando da dietro la lavagna con la mano alzata. Bravo, vai al posto! Non posso dire di essermi sentito chiamato al sacerdozio. Posso però riassumere così: da una parte il lavoro della terra era duro, incerto, per via della grandine, pericolo che incombeva da giugno ad agosto; dall’altra volevo diventare importante, come il parroco, che in paese era la figura più autorevole”.
E come mai hai indossato proprio l’abito bianco dei frati domenicani?
“Qui il discorso dei motivi si fa ancora più fragile. I miei genitori non potevano pagare la retta del seminario e il parroco cominciava a pensare a una borsa di studio. Ma durante l’ultimo anno delle elementari, il padre domenicano responsabile del reclutamento dei ragazzi, fr. Vincenzo Moiso, amico dei miei genitori, cominciò a frequentare la nostra casa parlandomi dei domenicani, delle cose belle che facevano. Diceva che non c’era da pagare una retta: le famiglie contribuivano con un’offerta, secondo le loro possibilità. E poi in collegio a Carmagnola, dove sarei andato, c’era già un ragazzo di Calosso, altri due sarebbero venuti con me, mi sarei sentito meno solo. Infine, la cosa più affascinante: il mercoledì si mangiava risotto coi funghi (che risultò vero!).
Posso aggiungere, più in generale, che avere un prete in famiglia era una possibile fonte di aiuto, e comunque una promozione sociale. Una vicina di casa, che aveva avuto la fotografia di me e mia mamma il giorno in cui avevo indossato l’abito domenicano, mi aveva scritto: Che onore per la nostra piccola borgata avere uno di noi così ben rivestito!
Ecco, tutto questo autorizza a parlare di ‘chiamata’ al sacerdozio!? No! Ed è evidente che se sono qui oggi, è perché i motivi detti sono stati man mano sostituiti da altri, degni, e io di volta in volta ne ho pagato il prezzo in termini di crisi e conflitti. Per concludere, non posso dire di essermi sentito chiamato. Però dico che di fatto sono stato ‘preso’ da una forza più grande che mi ha ‘portato’. E qui si apre un discorsone più grande di me: il discorso del Mistero di Dio che con la sua Potenza ‘prende’ e ‘porta”.