Tra le questioni che s’impongono all’attenzione del dibattito pubblico vi è certamente il tema della “robotica”. Benché i più non siano ancora in grado di accorgersene, da più parti si sente dire che stiamo per entrare o siamo già entrati nell’era dell’industria 4.0, della diffusione degli automi su vasta scala, fino ad intercettare le nostre dinamiche più banali e quotidiane… dall’andare a fare la spesa – compito ormai assolvibile da una serie di robot debitamente programmati – fino all’accudimento degli anziani, per non parlare dei ben più letali droni prodotti dall’industria bellica o dell’importanza dell’automazione negli scambi finanziari. Se la possibilità di interagire con robot molto simili agli umani, fino a pochi decenni fa, era confinata nelle pagine più o meno appassionanti dei racconti di fantascienza o negli ancora più intriganti romanzi distopici, per non dire dei tanti prodotti cinematografici o – per i più piccoli – dei cartoni animati giapponesi, oggi non è così.

L’interazione con automi, equipaggiati con quella che viene chiamata “intelligenza artificiale”, viene oggi presentata come una realtà a portata di mano che entusiasma ingegneri ed economisti e allarma sociologi e sindacalisti. Si inizia, infatti, ad intravvedere che quest’ulteriore rivoluzione nella produzione rischia di ridurre drammaticamente il bisogno di lavoro umano, accelerando così quel processo che ha ridisegnato il nostro orizzonte sociale facendo sì che l’uomo stesso venga valutato secondo criteri di utilità ed efficienza. La circolarità incontrollata tra innovazione tecnologica e sviluppo economico comporta una costante ricerca della crescita che esige l’abbattimento di ogni limite alla ricerca tecno-scientifica. Da questo punto di vista, il tentativo di superare le paure inevitabilmente suscitate dai fantasmi proiettati su questi sofisticati prodotti della tecnica, in vista di una diffusione sempre più capillare dei robot, secondo alcuni costituisce solo una prima fase verso un obiettivo molto più ambizioso. Ce lo suggerisce uno storico molto singolare come Yuval Noah Harari, docente presso la Hebrew University di Gerusalemme e autore di un fortunato bestseller intitolato significativamente Homo Deus. Breve storia dell’umanità. Tentando di comprendere la direzione che un’umanità sempre più potente sulla natura e sul proprio destino imboccherà nei giorni a venire, lo storico israeliano – forte dei guadagni sui flagelli che limitavano il desiderio di vita della più parte dell’umanità fino al recente passato (fame, malattie e guerre) – dipinge un quadro delle potenzialità iscritte nel presente che non può lasciare indifferente il pensiero cristiano. E non solo perché queste conquiste sono riservate ad una minima porzione degli uomini e delle donne, mentre la stragrande maggioranza di essi vive in condizione di umiliante e drammatica precarietà, elemento che sarebbe più che sufficiente per interrogarsi sulla gestione delle risorse e sul fine perseguito da coloro che ne sono anche solo parzialmente responsabili. Ma vi è sorprendentemente di più. Riflettendo sulla triplice frontiera di competenze delle biotecnologie, dell’ingegneria biomedica e della robotica vera e propria, Harari ritiene che «dopo aver sollevato l’umanità dal livello bestiale della sopravvivenza, coltiviamo l’ambizione suprema di elevare gli umani al rango di divinità, di trasformare Homo sapiens in Homo Deus». Dove la divinità è fatta coincidere con i superpoteri attribuiti agli dei delle mitologie antiche. E poco oltre, enfatizzando l’urgenza di una presa di coscienza della via imboccata dall’umanità, aggiunge: «Ogni giorno milioni di persone decidono di delegare ai loro smartphone una porzione più grande di controllo sulle loro vite, o cercano un nuovo e più efficace farmaco antidepressivo. Nella ricerca della salute, della felicità e del potere, gli uomini cambieranno con gradualità prima una loro caratteristica e poi un’altra e un’altra ancora, finché non saranno più umani». Al di là del sapore neopagano e del tono apocalittico che allude addirittura ad una sostituzione dell’umano da complessi sistemi non-organici capaci di programmarsi, di prodursi e di ottimizzarsi, così come ci hanno mostrato diversi film di fantascienza, non possiamo non lasciarci interrogare dallo storico israeliano. La sfida ch’egli ha posto in termini culturali risuona, infatti, da secoli nelle riflessioni dei teologi sulla “divinizzazione”. Un termine che indica la questione fondamentale sul senso dell’esistenza, che interpella l’uomo dalla sua origine fino alla fine della storia come tentazione o come dono e occasione di salvezza. Il disegno di Dio consiste nella creazione dell’uomo e della donna affinché l’umanità possa vivere nella comunione con sé e con i fratelli, che viene realizzata nel mistero dell’incarnazione in cui il Figlio si è fatto uomo per donarci la partecipazione alla vita divina.

Eppure fin dalla loro comparsa l’uomo e la donna sono infatti tentati di appropriarsi di questo dono cercando di “diventare come Dio” con le proprie forze, cioè senza l’aiuto misericordioso di Dio e, pertanto, contro la volontà divina. Non serpeggia forse ancora l’insinuante proposta – che riappare ciclicamente nella storia in forme ideologicamente differenti – ad agire per essere come Dio? (Gen 3,5). Per poter gestire le ambiguità dello sviluppo tecnologico, facendone ricadere alcuni benefici dell’applicazione dell’intelligenza a partire dagli ultimi, senza lasciarsi affascinare dalle possibilità dischiuse inevitabilmente per pochi (oltre agli imprevisti effetti collaterali sempre più nocivi), occorre un criterio. La fede della chiesa ce lo indica senza equivoci: «Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, 22).

fra Marco Salvioli, op