Può nascere un vitello da un tronco?

Siamo soliti ricondurre le origini del pensiero scientifico immediatamente alle grandi svolte fra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo e alla figura di Galileo Galilei in particolare, con la sua drammatica vicenda. Questo è certamente corretto; tuttavia, è possibile scorgere più in profondità le premesse di questi sviluppi. In particolare, si può individuare una svolta decisiva in un dibattito che si svolge fra XI e XII secolo. Si tratta di un momento importante, anche perché ci permette di cogliere un elemento di differenziazione fra il pensiero che si sviluppa in Occidente e quello di altri sistemi culturali.
La questione in gioco fra gli intellettuali di quell’epoca è quella che, con un termine filosofico classico, potremmo definire il problema delle “cause seconde”. Si tratta di una discussione che avviene tutta fra i chiostri dei monasteri e quelli delle scuole cittadine, soprattutto legate alle cattedrali: all’altezza di questi anni, l’istruzione è innanzitutto teologica, e gli sviluppi ulteriori derivano innanzitutto da riflessioni che in prima battuta hanno per oggetto Dio e la possibilità di conoscerlo, attraverso i due “grandi libri” in cui si rivela: quello delle Sacre Scritture, e quello della natura. Soprattutto fra i chierici delle scuole cittadine vi è chi è sempre più interessato a cogliere la «natura» delle cose, l’insieme dei processi che vi ricorrono, e le norme che ne regolano la vita. Per contro, soprattutto fra i monaci, vi è chi avversa questo tentativo: è empio, dicono costoro, voler individuare norme che limitino la possibilità che qualcosa accada, perché questo sarebbe come porre dei limiti a Dio, che è onnipotente.
È utile sentire le loro stesse voci, per comprendere meglio, e in modo più immediato, le loro ragioni. Diceva il monaco e riformatore della Chiesa Pietro Damiani, scagliandosi contro gli investigatori delle leggi del cosmo, che

…la potenza divina spesso distrugge i sillogismi schierati dai dialettici e le loro astuzie, e confonde le argomentazioni di tutti i filosofi, che loro considerano necessarie e inevitabili. Ascolta il sillogismo: se il legno arde, certamente si consuma. Ma ecco che Mosè vede un roveto che arde e non si consuma (cfr. Es 3,3). Ancora: se un legno è reciso, non fruttifica. Ma ecco la verga di Aronne, che, contro l’ordine della natura [contra naturae ordinem], viene trovata nel tabernacolo che fruttifica (cfr. Num 17,8). […] Per che motivo, direi, tutte queste cose, se non per confondere i frivoli argomenti dei sapienti di questo mondo, e contro la consuetudine della natura [contra naturae consuetudinem] rivelare ai mortali la gloria della potenza divina? Vengano i dialettici, o piuttosto, come sono ritenuti, eretici, e vedranno essi stessi» (De divina omnipotentia, XI).

A queste obiezioni rispondeva per esempio il chierico Guglielmo di Conches, probabilmente maestro alla scuola della cattedrale di Chartres, commentando il passo di Gn 1,7 («[Dio] divise le acque che sono sotto il firmamento»). Riprendendo gli argomenti dei suoi avversari, Guglielmo afferma:

«So già che cosa diranno: “Noi non sappiamo in che modo questo possa essere, ma sappiamo che Dio lo può fare”. Miseri! Che cosa può esserci di più misero, che dire questo? Poiché Dio può farlo, né vedere se le cose stiano proprio così; né cercare la ragione per cui stiano in questo modo; né mostrare l’utilità per cui ciò proprio in questo modo è ordinato. Ma Dio non fa tutto ciò che potrebbe fare! Per usare parole da contadino: Dio può far nascere un vitello da un tronco; forse che lo faccia?» (Philosophia mundi, II, 3)

È lecito o no cercare le norme che reggono l’ordine del cosmo, di ciò che questi autori chiamano la machina universalis? Un secolo più tardi, quando queste polemiche si saranno ormai placate in favore di chi ritenne che fosse lecito, Tommaso d’Aquino, riecheggiando un passo proprio di Guglielmo di Conches, potrà dire che «sminuire la perfezione delle creature è sminuire la perfezione della potenza divina» (Contra gentes, III, 69).
Questi autori medievali, riprendendo il pensiero dei filosofi dell’età classica, non tradivano affatto il pensiero biblico. Piuttosto, la fede per cui in Cristo si ricapitola tutto il cosmo dava nuova e inedita energia a queste speculazioni. Nel creato cogliamo un ordine: come dice il libro della Sapienza (11,20), tutto è «disposto con misura, calcolo e peso». Vi è un ordine, perché tutto è creato in Cristo: egli stesso è la Sapienza, è il Logos, come afferma il prologo del Vangelo secondo Giovanni, la Ragione che dà ragione di tutto. La sua purissima, semplicissima luce passa attraverso il prisma dell’atto creatore, e mostra nell’arcobaleno del creato le sue infinite perfezioni.
In principio sta la Ragione, di cui cogliamo i riflessi nei processi del cosmo, che la nostra ragione, creata a sua immagine, può cogliere. Con questo ottimismo, nient’affatto irreligioso, e meno che meno irrazionale, i maestri di quelle epoche si avventurarono fra le meraviglie del cosmo.