San Tommaso d’Aquino, nella prima parte della sua Summa Theologiae, descrive la teologia come una scientia recta, in quanto desume i suoi principi da una scienza superiore, ossia la sapienza stessa di coloro che contemplano Dio faccia a faccia, a sua volta partecipazione della conoscenza che Dio ha di sé e di tutte le cose in sé medesimo. Di questa sapienza Dio ci rende partecipi attraverso la rivelazione, e procedendo dai suoi contenuti la teologia elabora l’ammaestramento che serve a nutrire l’intelligenza credente. Così la scienza teologica diviene essa stessa sapienza, in grado di conferire pienezza e verità al pensiero dell’uomo.

Ma l’immagine che Tommaso privilegia per parlare di questo rapporto tra una scienza rectrix ed una che lavora a partire dai principi conferiti da essa è l’esempio della matematica e della musica. La musica infatti si serve come princìpi di azione di ciò che la matematica offre come conclusioni e frutti del suo ragionamento. Così, l’armonia musicale diventa l’applicazione magistrale di leggi desunte dall’astrazione matematica. Pitagora compositore ringrazia il Pitagora matematico. Ora, se questa metafora è valida, possiamo usarla per descrivere che cosa in profondità è, per Tommaso, la teologia, memori che senza conversione in fantasia non vi è vera comprensione, come egli stesso insegnava.

Prendendo il rigore come caratteristica peculiare della matematica, che essa conferisce alla musica e alle sue armonie e ai suoi rapporti metrici – caratteristica che permette di far percepire una bellezza segreta e sapiente – questo rigore sarà un punto della nostra definizione della teologia, ovviamente prendendolo in senso analogico. La teologia dunque, poiché sta alla scienza dei beati come la musica sta alla matematica, sarà “una musica di paradisiaco rigore”. Ora, quella di san Tommaso è la teologia per eccellenza (affermazione tacciabile di scarso tomismo in quanto assente nelle opere di Tommaso), dunque volendo esplorare la teologia come musica non possiamo che volgerci per antonomasia al suo vivo insegnamento, esecuzione retorica ricca appunto dell’intensa verità presente in Dio, quasi una musica, per la capacità di “movére”, di mettere in discussione positivamente il nostro pensiero e farvi penetrare la luce del paradiso.

Non sfugga un passaggio importante: abbiamo scelto di considerare non la teologia di Tommaso consegnata allo scritto, ma l’orale. Se vi fossero dei dubbi, dichiariamo che questa scelta è dettata da due motivi. Il primo è che quasi tutto quello che egli ha messo per iscritto, è stato prima orale. Il secondo è che, se vogliamo esplorare in profondità l’insegnamento dell’accostamento, che Tommaso stesso ci propone, tra teologia e musica, non possiamo non privilegiare l’aspetto sonoro che, fortunatamente, non è assente da nessuna realtà umana. Ma qui dobbiamo uscire dall’incanto, e realisticamente dirci: van bene le metafore, ma la musica è altro. La domanda è: che cos’è il proprio della musica? Al di là del rigore che le dà la matematica, simile al dono che appunto la scienza paradisiaca fa alla nostra ricerca teologica, che cosa identifica la musica come tale? È presto detto: la melodia. Forse non è l’unico tratto, ma è certamente quello più rappresentativo.

Come andremo avanti se non cercando la melodia nella teologia di san Tommaso? Ora però non ci accontentiamo più delle metafore: vogliamo sentire questa benedetta melodia. Sarebbe bello poterla sentire direttamente, come poterono fare tanti suoi alunni e confratelli, che certamente ne avranno tratto parte della loro persuasione della sua santità. Chi di noi, ad esempio, non ricorda la voce ferma di san Giovanni Paolo II? Chi di noi riesce a dissociare quella voce dalla sua santità? Non era forse parte della sua santità quella sua fermezza, quel suo misto di sentimenti così profondi, così umani, così integrali? Certamente; anzi, possiamo immaginare che in paradiso la sua santità risuoni con la stessa identica tonalità, eco di una delle perfezioni di Dio. Lo stesso vale per san Tommaso d’Aquino. Con la differenza che non lo abbiamo sentito direttamente, né abbiamo registrazioni.

O meglio, le registrazioni che abbiamo sono le informazioni che abbiamo su di lui. Com’era dunque la sua cadenza? Com’era la sua melodia? Non è una domanda oziosa: non c’è sole senza luce, non c’è verità senza un suo rivelarsi, non c’è maestro senza autorevolezza della voce. Ogni maestro ha il suo tipo di autorevolezza: ricordo la voce del beato cardinal Schuster, acuta, stridula: impossibile non riconoscervi la voce di un santo, la voce del Pastore. C’è chi atterrisce con la sua timidezza, o con una quasi malata debolezza: ricordo il mio incontro con la badessa Cànopi, e il suo parlare nel microfono alle consorelle, tenendo loro la meditazione quotidiana del Mattutino. Il cicalio della saliva, segno della sua età, non faceva che accrescere la soggezione, misteriosamente. Incontrandola poi faccia a faccia, beh, devo dire che la mia faccia era rivolta al pavimento: un papa! E di quelli più gravi.

Tommaso era di Roccasecca, ma il suo insegnamento lo faceva in latino. Oggi diremmo che era ciociaro, anche se Roccasecca tende più verso il napoletano. Oltretutto, Tommaso passò quasi dieci anni della sua infanzia a Montecassino e studia cinque anni a Napoli. Non possiamo peraltro pensare che trasferendosi ventenne a Parigi e abitandovi per quasi vent’anni non abbia preso niente di quell’ambiente, oltretutto cosmopolita. Io stesso, stando a Bologna da ormai quattro anni ho preso qualcosa di bolognese, o forse ho semplicemente perso qualcosa del comasco: queste sottigliezze impercettibili le hanno però notate i miei amici brianzoli, mentre per i miei fratelli bolognesi o bolognesizzati rimangono risibili. Comunque sia, tutti ci modifichiamo: ricordo un mio amico calabrese nel seminario di Milano che quando tornava in patria per le vacanze era soprannominato “il milanese”, finché verso la fine dell’estate insieme all’abbronzatura si riprendeva la sua cadenza originaria, da sfoggiare poi a noi all’inizio dell’anno sociale. Così sarà avvenuto anche per Tommaso, la cui residenza cambiò più volte, soprattutto tra Italia e Francia.

Però, in fondo in fondo, io credo che sia rimasto sempre un figlio di Roccasecca e Montecassino. Anche Gesù, nella sua “gloria” – come chiama l’evangelista Giovanni la crocifissione – è indicato da un cartello come “il nazareno”. Così, quel paesino che lo aveva visto crescere, taciuto ovunque dall’Antico Testamento, si incide eternamente nel Nuovo. E il Nuovo Testamento non è un libro, ma, appunto, la gloria eterna di Cristo, il mistero di Dio, la sapienza, l’energia che muove il mondo. Cristo regna sul mondo dalla croce, da Adamo a Zuzzurro, su tutta la storia, e dalla croce regna come colui che parla con l’accento di Nazareth (cfr. Mt 26,71-73; 27,46-47; Gv 8,43; 10,27). Tommaso è andato ovunque, per annunciare, per obbedienza, per diffondere il buon profumo della sapienza di Cristo: ma qualcosa di indelebile ha portato sempre con sé nel suo corpo e nella sua anima. Non si può dare la vita se non la si ha; non si può dare sé stessi se non si è qualcuno; non si può essere “pecora muta di fronte a chi la tosa”, non si può essere sacrificio, se non si ha nemmeno un belato da tacere. Tanto meno senza una propria musica si può essere il “bue muto”, come chiamavano Tommaso, malignamente, i suoi compagni. Io, quando in camera, alla sera, si fa silenzio, cerco sempre di sentire, in quel vuoto, la più esatta delle teologie: il risuonare di quel muggito.

fra Stefano Prina

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