Fra Marco, tu hai studiato all’istituto tecnico e come tecnico hai anche lavorato. Poi, a un certo punto, hai deciso di fare l’università… Che cosa è successo?

Direi che ad un certo punto ho ritrovato le cose che mi affascinavano da bambino, e che in realtà costituivano i miei interessi più profondi. Con un termine che si usava qualche anno fa, si possono definire in modo improprio «l’immaginario», ma in realtà ho imparato a chiamare queste cose, in modo più radicale, il Mistero. Ho capito che, al netto di tutti gli sbandamenti e i fraintendimenti, questa tensione era quella che mi aveva guidato nelle miei esperienze di quegli anni. Cominciai a studiare in modo più sistematico e per conto mio, di sera e nei fine settimana, le grandi esperienze religiose, le mitologie, gli storici delle religioni del XX secolo; poi, con l’aiuto di un’amica, comincia a studiare il latino. Poi mi accorsi che sarebbe stato bello fare di tutto questo la mia vita: si trattava di investire qualche soldino messo da parte, e di chiedere un po’ di pazienza e aiuto alla mia famiglia, per frequentare l’università. Si trattava anche di vivere più sobriamente per qualche anno; forse per il resto della mia vita – un posto di insegnante nelle scuole medie non implica i guadagni del terziario (allora) avanzato, né allora né oggi. Pazienza: ne valeva la pena. Potevo stare senza ferie-stadio-settimana bianca etc. etc.. (non senza moto, però: la vendetti solo entrando in convento…), ma avrei fatto quello che mi interessava davvero. Mi iscrissi all’Università Cattolica del Sacro Cuore e cominciai a frequentare nel novembre 1994. Contestualmente, cominciai a ridurre drasticamente i miei impegni lavorativi.

Durante i tuoi studi hai maturato la vocazione domenicana. Raccontacelo.

Proprio nei mesi immediatamente precedenti alla mia iscrizione all’università mi ero riavvicinato alla fede. A quel punto fui attirato dagli studi sul Medioevo: sul periodo, cioè, in cui la fede in Cristo aveva costituito un asse essenziale e quasi esclusivo per lo sviluppo della cultura e per l’organizzazione della società. Per inciso, mi è costato fatica, ma è stato anche motivo di grande gioia e sorpresa, capire come proprio in quei secoli secoli si ponessero le basi degli sviluppi dei secoli successivi, così diversi.

Fui attirato soprattutto dalle grandi esperienze della vita religiosa: i monaci (inizialmente pensai di diventare Cisterciense) e i frati. Grazie a un’esperienza all’estero (“Erasmus”), a Vienna, conobbi meglio i frati Predicatori. Mi sembrò che la loro vocazione, così come – mi spiegarono – la presenta Tommaso d’Aquino («Contemplare, e trasmettere agli altri ciò che si è contemplato»), descrivesse un modo di vivere già un po’ mio, e che avrei voluto che diventasse tutta la mia vita.

L’università è però rimasta il tuo grande amore e non te ne sei mai allontanato. Hai fatto “carriera” e ora sei docente incardinato. E’ quello che desideravi? 

Come ho detto, l’incontro con la fede e le prima esperienze in Università sono dello stesso periodo, e nella mia vita si sono intrecciate. La Chiesa ritrovata – dopo la formazione ricevuta da bambino, molto sentita grazie agli ambienti in cui ero cresciuto – erano per me soprattutto le persone che studiavano con me e che mi aiutavano a studiare. Quello che desideravo, e che mi ha fatto incontrare i frati Predicatori, era di mettere lo studio, la ricerca, l’insegnamento al servizio del Vangelo, per edificare la Chiesa. Ho ritrovato questa tensione, con grande conforto, negli scritti di Giordano di Sassonia. Per lui la formula che descrive la nostra vita è «honeste vivere, discere et docere». Il nostro Ordine alle origini è cresciuto – nel numero e nella sua spiritualità – nelle università. Il primo non-domenicano a darci una testimonianza sui frati Predicatori (il futuro cardinale Giacomo da Vitry, poco dopo il 1220) li chiama «congregazione degli studenti di Cristo».   

Comunque dai domenicani non hai smesso di studiare. A cinquant’anni suonati non sei ancora stufo?

No. Credo di essere sincero, dicendo che per me studiare e raccontare le cose belle che ho incontrato nello studio – inteso come qualsiasi esperienza di incontro approfondito e meditato con la realtà –, non è una questione di doveri o di piaceri, di titoli o di incarichi. È semplicemente il modo che mi trovo addosso di incontrare e considerare le cose.

Fai anche il “reggente”, cioè coordini la vita intellettuale dei frati della provincia, soprattutto di quelli in formazione. Non sei frustratissimo?

Assolutamente no. Ho capito in fretta che non c’è cosa più bella che insegnare e aiutare a studiare. Aveva proprio ragione Domenico: non ha senso studiare le pelli morte, dimenticando la fame dei vivi. E tra i vivi, in particolare tra i giovani, e in particolare tra i giovani frati, la fame è tanta. Basta far balenare una fiamma, e vedi i confratelli – ma anche i più anziani, anche malati magari – accendersi in discussioni. Questo litigioso Ordine è straordinario, e necessario, oggi più che mai, alla Chiesa di Dio.