Quasi tutti gli uomini per noi sono innominati. Nhung, del Vietnam, e Mirko, di San Giuliano, sono per noi dei perfetti sconosciuti. Per il Padre, invece, sono il figlio lungamente atteso: “e gli corse incontro, stringendolo forte a sé: solo il cuore di un padre sa, un figlio, che cos’è”.

San Domenico “accoglieva tutti gli uomini nell’ampio seno della sua carità e, perché tutti amava, da tutti era amato” (Libellus de principiis ordinis, 107). Gli atti del processo di canonizzazione riportano frasi come la seguente: “Il teste non vide mai persona che fosse più di lui piena di zelo per le anime; tanto che egli assai spesso manifestava il desiderio di andare a evangelizzare i Cumani e gli altri popoli infedeli” (Bologna, n. 32). Per questo “si dedicava alla predicazione con assiduità e sollecitudine e nel predicare usava parole così commoventi che spesso si emozionava fino alle lacrime” (Bologna, n. 37). Egli, si dice, “esortava e obbligava i frati a predicare la parola di Dio di giorno e di notte, nelle chiese e nelle case, nei campi e sulle vie, in una parola ovunque” (Tolosa, n. 18).

Per noi sono nomi, per il Padre sono “nomi scritti nei cieli” – cioè nel Suo cuore – che lo fanno commuovere. “Sion ha detto: ‘Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato’. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani” (Is 49,14-16a). I nostri nomi sono così cari a Cristo da accogliere il fatto che si trasformino in ferite d’amore: “Gli si dirà: ‘Perché quelle piaghe in mezzo alle tue mani?’, ed egli risponderà: ‘Queste le ho ricevute in casa dei miei amici’” (Zc 13,6).

Che domenicani siamo, se non abbiamo dentro di noi la commozione per tutti gli uomini, condividendo ogni loro sofferenza, e desiderando sopra ogni cosa il loro ritorno a casa? La nostra vista, infatti, si deve stendere su tutta la faccia della terra e su tutti i volti, perché possiamo riconoscere “sotto a quel fosco e a quel turbato” che il più delle volte la nasconde, la bellezza dei figli di Dio. Frati, suore, ragazzi, ragazze, giovani, fidanzati, sposi, musulmani, indù, cinesi, ortodossi, copti, uomini ipertecnologici o iperindaffarati, o semplicemente cristiani che hanno dimenticato di esserlo, tutti questi sono singolarmente attesi dal Padre, e noi dobbiamo incarnare, per quanto ci è possibile, questa cura che, fortunatamente, va oltre noi. Ma, per ciò che non possiamo materialmente raggiungere, almeno dobbiamo… piangere.

Tutti sono innominati, ma nessuno è senza un nome; tutti sono sconosciuti, ma ognuno ci è carissimo. E, come nel caso dell’Innominato famoso, non è il caso tanto di sottolineare le sue mancanze, quanto di cogliere ciò che di buono sta nascendo nel suo cuore. Non il suo peccato, ma l’irripetibile bellezza di un essere capace di amare, l’abisso della sua anima mai fino in fondo esplorabile se non con la commozione, con religiosa riverenza. Il Padre che noi rappresentiamo ci vuole così, lanciati sempre a compiere il primo passo, perché se è vero che ogni uomo ha la sua libertà, un padre non aspetta che il figlio completi il suo discorso di scuse, ma lo previene e lo interrompe, sostituendo al servo umiliato e imbarazzato il figlio amato e onorato, padrone insieme al Padre della grande casa creata da Dio proprio per lui. Tocca a noi fare il primo passo.

Per questo, il nostro saluto a tutti coloro che vengono a parlarci o ad ascoltarci non può che essere questo: “Oh! che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!” (Promessi Sposi, cap. XXIII).

fra Stefano Prina