Tra le categorie elaborate per descrivere l’attuale situazione del cristianesimo nelle società occidentali, quella che più di altre sembra svolgere tale compito col minor margine di errore risponde al nome di “post-cristianesimo”. Al di là del comprensibile scetticismo ch’essa può suscitare, ritengo tuttavia che se considerata come semplice strumento interpretativo – e non sopravvalutata come categoria capace di definire pienamente lo spirito-del-tempo –  tale espressione possa contribuire a leggere almeno alcuni aspetti della complessa realtà sociale nella quale viviamo. Uno dei vantaggi che la prospettiva dischiusa da quest’espressione comporta, consiste nel carattere dialettico inerente al “post” che precede il riferimento alla religione cristiana. Connotando una situazione o un evento come postcristiano, da un lato, s’intende infatti sostenere che quanto si sta interpretando va a collocarsi in un orizzonte che implica l’oltrepassamento di un quadro comunemente accolto come cristiano. Dall’altro lato, tuttavia, viene allo stesso tempo ribadito che ciò che è così interpretato non può essere compreso senza riferirsi al cristianesimo dal quale proviene e dal quale comunque finisce per prendere le distanze. A questo punto, è forse possibile concretizzare tale dinamica attraverso un esempio che mi azzardo ad interpretare come paradigmatico della condizione in cui – dal punto di vista dell’immaginario socioculturale – viene a trovarsi il cristianesimo nell’attuale passaggio d’epoca che l’Occidente sta attraversando. Mi riferisco ad un prodotto che qualche settimana fa ha riscosso l’attenzione delle testate giornalistiche, se non per il suo valore intrinseco quantomeno per la sua innegabile bizzarria, per certi versi, come minimo irriverente. Effettivamente si tratta “solo” di un paio di scarpe, ma alquanto singolari. Si tratta degli sneakers Nike Air Max 97, rivisitate dalla MSCHF di Brooklyn attraverso l’aggiunta di elementi cristiani: un crocifisso di metallo tra le stringhe, 60 centilitri di acqua “santa” proveniente dal fiume Giordano racchiusa nella suola, croci stampate sulla soletta e la citazione evangelica «Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare» (Mt 14,25). Queste scarpe, presto chiamate Jesus sneakers, hanno conosciuto un successo “virale”: dagli USA alla Francia, dalle Filippine all’Italia sono diventate oggetto di un’intensa ricerca, fino ad essere vendute nelle aste online intorno ai tremila dollari al paio e ad andare presto esaurite. Alla luce di alcuni approcci analitici sviluppati nell’ultimo mezzo secolo, possiamo mettere da parte le reazioni semplicistiche che oscillano tra la derisione e lo sdegno, per leggere in questo prodotto di consumo un sintomo. Quando si dà un evento, caratterizzato anche da un certo riconoscimento sociale, vuol dire che si sono concomitantemente attuate le condizioni storiche e socioculturali per la realizzazione di tale accadimento. Le nostre società occidentali, in altri termini, risultano ambienti nei quali è stato possibile produrre e commercializzare con successo un paio di scarpe che contiene acqua santa nelle suole e un crocifisso tra le stringhe. Non è forse questo, mi chiedo, un “calzante” esempio di quel che significa il termine “post-cristianesimo”? A che cosa fanno segno le Jesus sneakers se non ad un “mondo” in cui i simboli della religione che ha plasmato l’Occidente vengono assorbiti dalle dinamiche del consumismo e ridotti ad “icona commerciale”, ultimo ritrovato delle ricerche dell’ufficio marketing di un provocante brand newyorkese, oggetto di consumo gradito da fan del cristianesimo? Questo paio di scarpe non manifesta simbolicamente come il cristianesimo fatichi a resistere al processo di risignificazione omologante dovuto all’attestarsi della logica culturale del capitalismo che riduce tutto a merce? Per quanto non usuali, questo genere di analisi non sono certo nuove. Quella più celebre risale al 17 maggio 1973 ed è stata pubblicata sul Corriere della Sera a firma di Pier Paolo Pasolini. L’analisi, divenuta celebre, aveva come oggetto lo slogan dei jeans Jesus: «Non avrai altri jeans all’infuori di me». Una strategia di marketing molto efficace, che ha suscitato le «geremiadi» dell’Osservatore romano e la diligente risposta della magistratura. Si trattava evidentemente di reazioni consone ad un altro contesto socioculturale – l’Italia del Concordato Stato-Chiesa negli anni Settanta – che Pasolini non solo delinea con spietato acume, ma di cui fotografa anche il tramonto con sorprendente lucidità. «Il futuro appartiene alla giovane borghesia» leggiamo nella raccolta Scritti corsari «[…] che non sa più cosa farsene della Chiesa, la quale, ormai, ha finito genericamente con l’appartenere a quel mondo umanistico del passato che costituisce un impedimento alla nuova rivoluzione industriale; il nuovo potere borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione del consumo. Per la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è più spazio». Lo slogan dei jeans Jesus, col suo «cinismo», consentiva al poliedrico intellettuale d’annunciare l’imporsi di una decisiva mutazione sociale: con l’imporsi del consumismo, la religione non servirebbe più ai detentori del potere per esercitarlo sulle masse. Che cosa suggeriscono invece i Jesus sneakers nel tempo della globalizzazione neocapitalistica, in cui il consumismo stesso sembra aver assunto i tratti di una religione? È difficile stabilirlo qui. Sembra tuttavia che questo “sintomo” inviti i cristiani a ripensare a fondo la propria posizione nella società, testimoniando ecclesialmente che la fede in Cristo non è in alcun modo riducibile all’attuale religione post-cristiana del consumo.

fra Marco Salvioli

(“Nostro Tempo”, 15 dicembre 2019)

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