11 aprile 2021

Vedere per credere

LETTURE: At 4,32-35; Sal 117; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

Dopo l’annuncio della Domenica di Pasqua, con le sue letture che ci presentano la gioia e lo stupore dei discepoli, la liturgia ci guida attraverso la riflessione della prima comunità cristiana che comincia a comprendere meglio ciò che è accaduto. Soprattutto, cominciano ad affacciarsi due elementi fondamentali della vita dei discepoli del Risorto: la fede e la testimonianza.

La riflessione di questa seconda domenica di Pasqua si appunta allora sulla realtà della Risurrezione: direi anzi, sulla fisicità del Risorto. Nei racconti delle apparizioni questo è un dato ben evidenziato: Gesù chiede del cibo ai discepoli, e poi mangia con loro (Lc 24,41-43); lo prepara in qualche modo egli stesso (Gv 21,9), o comunque siede a tavola con loro (Lc 24,30). Nella pagina proclamata oggi si ha in effetti il punto più alto ed evidente di questo tema, con la condizione posta da Tommaso per credere, di vedere «nelle sue mani il segno dei chiodi», e mettere «il dito nel segno dei chiodi» e la mano nel fianco del Crocifisso risorto: una richiesta a cui Gesù non si sottrae. 

Il tempo di Pasqua, in queste prime battute, sembra insomma condurci dal gioioso stupore iniziale a una riflessione più serrata sul fatto centrale, su ciò su cui sta o cade la nostra fede. Come non ricordare qui le parole dell’Apostolo, nel capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi, proprio là dove narra delle apparizioni del Risorto: «Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). Qui non è in gioco un messaggio morale o dei “valori”, ma un fatto – del resto, ciò che solo può opporsi all’altro terribile, ineluttabile fatto della morte.

Se questa è la posta in gioco, è inevitabile che di fronte a un fatto mai udito prima (cfr. Is 52,15), si alzi la tensione fra la giusta istanza della ragione, che con un moto naturale cerca di andare fin là dove può, per capire, per vedere, e d’altro canto l’indole profonda della fede, che per sua natura si lancia verso ciò che non può fino in fondo né comprendere né vedere. È quanto le Scritture spesso ci ricordano (ad es. 1Pt 1,8: «Voi lo amate, pur senza averlo visto»; Eb 1,11: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede»), e quanto il Signore stesso nel Vangelo di oggi dichiara a Tommaso: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). 

E tuttavia, il moto della ragione è naturale e non può essere frustrato; allora, come posso io essere ragionevolmente certo, lontano dal tempo e dal luogo dell’evento, della straordinaria pretesa contenuta nell’annuncio di Pasqua? 

È ancora la pagina evangelica proclamato oggi a soccorrerci: Gesù stesso mostra ai discepoli, prima che a Tommaso, le mani e il fianco: «e i discepoli gioirono a vedere il Signore». Cristo sa che la ragione dell’uomo, formato a sua immagine e somiglianza, ha bisogno della carne e del sangue. 

Subito di seguito, Gesù afferma: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi», e soffia sui discepoli lo Spirito Santo. Ecco dove trovare l’Incarnato, anche lontano dalla data della sua risurrezione e ascensione al cielo, dalla sua scomparsa allo sguardo degli occhi della carne degli uomini: in coloro che ha inviato, come il Padre lo aveva inviato; in coloro che hanno ricevuto il suo Spirito, nella sua Chiesa. La Chiesa è il corpo di Cristo: il capo è asceso il cielo, ma le sue membra sono sulla terra; essa è la sua incarnazione continua, che prosegue – quasi un prolungamento nel tempo e nello spazio di colui che, come già a Maria, continua a chiedere a ciascuno di coloro che gli aderiscono di incarnarsi in qualche modo in loro; perché altri uomini possano incontrarlo, come tra uomini ci si incontra: con uno sguardo, con una voce, con un corpo limitato, e con delle ferite da contemplare. 

A questo ci riportano le letture proclamate dagli Atti degli Apostoli e dalla prima lettera di Giovanni: la Chiesa, corpo dell’unico Cristo, non può che avere «un cuore solo e un’anima sola», nella massima condivisione, per dare «con grande forza […] testimonianza della risurrezione del Signore Gesù» (At 4,32a.33a); senza alcun timore, perché «chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede». 

Tutto ciò è un compito troppo grande per le nostre sole forze: ma il Risorto ci rende membra del suo corpo, facendoci accostare all’unico suo corpo, che ci ha lasciato in terra, nell’Eucaristia. In questo modo riceviamo la forza, la vita stessa di Dio – la sua grazia –, in forza della quale, in modo invisibile, non percepibile agli occhi, alla vista corta dei nostri pochi anni, il Regno raggiunge la sua pienezza. Diveniamo noi stessi sacramento della sua azione: la Chiesa è segno efficace, «sacramento», come si afferma nei documenti del concilio Vaticano II (Lumen gentium, 48), e in questo modo compie immancabilmente il suo compito: nonostante tutte le possibili mancanze dei suoi ministri, e di ciascun fedele. Chiediamo al Signore di renderci degni di una tale missione.

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