11-13 marzo 2016 – Verona

Questo corso di esercizi spirituali per i laici domenicani, predicato da P. Marco Tommaso Reali con la supervisione di P. Daniele Mazzoleni e l’organizzazione di Giuseppe Aceti, rispettivamente Promotore e Presidente del Laicato domenicano del nord Italia, ha inteso iscriversi nelle forti coordinate temporali e liturgiche del tempo di Quaresima dell’anno giubilare dedicato alla Misericordia, con il significativo titolo: Il grande “Hallel”: eterna è la sua misericordia (Sal 136).
La meditazione ha preso le mosse proprio da questo “Hallel”, il grido di lode uscito a mezzo e rimasto strozzato nella gola del salmista, che, senza l’intervento della misericordia di Dio, non riesce a prorompere nell’“Halleluja” pasquale.
Il salmo 136 ripercorre gli snodi fondamentali della storia della Salvezza dalla creazione alla conquista della Terra Promessa, facendo memoria della fedeltà di Dio cui si contrappone la giusta umiliazione del popolo eletto, continuamente bisognoso di riscattarsi dalle sue infedeltà. Ad ogni intervento salvifico fa contrappunto la lode giaculatoria “perché il Suo amore è per sempre”.
Il lettore cristiano è chiamato a riprendere il lungo filo di questa antica lode annodando alla storia d’Israele quella della Chiesa, nuovo popolo di Dio aperto a tutte le genti. Il punto di saldatura pare realizzarsi plasticamente con la “nuova creazione” del prologo Giovanneo che all’“In principio” di Genesi 1:1 (“Bereshit barà Elohim”) giustappone quello del suo Vangelo (“en archè en o Logos”).
Lo stesso può dirsi della liberazione dalla schiavitù d’Egitto che prefigura la liberazione dalla schiavitù del peccato, sempre grazie all’intervento di Dio che salva il Suo popolo dalle forze impari del male (come già gli israeliti dall’esercito del Faraone) fino a giungere al trionfo pasquale sulla morte, realizzato tramite il sacrificio definitivo del Suo Figlio unigenito.
E’ dunque un’unica storia della Salvezza quella di cui, con il salmista, dobbiamo fare memoria. La storia collettiva di un popolo composta di una miriade di storie individuali incluse le nostre. Ciascuno di noi è quindi invitato a scoprire la misericordia di Dio nella filigrana della sua storia personale, senza rinnegare o obliterare i momenti più bui, le “umiliazioni” di cui parla il salmista, ma traendo anzi dalla memoria dell’azione di Dio nella nostra vita motivo di continua speranza.
È partendo da questa consapevolezza che si può leggere la Bolla di indizione del Giubileo straordinario il cui inizio, l’8.12.2015, solennità dell’Immacolata Concezione, ha coinciso significativamente con il 50esimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, con il quale la Chiesa, aprendosi al mondo contemporaneo, secondo l’auspicio di S. Giovanni XXIII, ha inteso “usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore”.
Diritto e rigore, infatti, pur necessari, non devono mai assurgere a fine ultimo della vita cristiana ma, piuttosto rimanere strumento e stimolo per un percorso di conversione che porta a scoprire che “la giustizia di Dio è il Suo perdono”. Questa verità si riflette mirabilmente nell’immagine del padre misericordioso che corre incontro al figlio dissipatore dei Suoi beni perché sa vedere oltre il male dell’uomo, come Michelangelo sapeva riconoscere i suoi capolavori nei blocchi di marmo grezzo apparentemente meno lavorabili e financo scartati da tutti (come fu il marmo da cui trasse il David).
La misericordia è l’architrave della Chiesa che ne sorregge e alleggerisce il peso della missione e Gesù la porta “probatica” attraverso cui passano le pecore dirette alle piscine per la purificazione e poi al macello per diventare offerte nel Tempio. Anche il cristiano è chiamato a modellare la propria esistenza su quella del Signore per renderla sacrificio (“sacrum facere”) gradito a Dio. La purificazione, premessa fondamentale di questo percorso, ci insegna a non identificarci con il nostro male e a lasciarci lavare dallo stesso per riscoprire in noi l’immagine di Dio ed avvicinarci, con la necessaria gradualità, all’incontro con il Padre.
Questa progressiva scoperta ci spinge a passare all’azione, alla testimonianza di vita e alla predicazione che non va considerata prerogativa esclusiva di presbiteri e consacrati. Nella esortazione apostolica Christifideles Laici, Giovanni Paolo II ha sottolineato infatti la dignità e corresponsabilità nella missione della Chiesa dei laici, operai della vigna capaci di raggiungere e santificare spazi della vita temporale e della quotidianità di fatto non raggiungibili dai sacerdoti. Per utilizzare un’espressione cara a Papa Francesco, il laico è la feconda ed insostituibile “periferia” della Chiesa.
La misericordia divina sembra entrare in tensione con il nostro concetto umano di giustizia, troppo spesso simile a quello dei farisei, per cui chi sbaglia deve pagare, mentre chi riesce a rispettare le regole può dirsi a posto e magari ringraziare Dio di essere migliore degli altri, sbrigativamente giudicati come indegni della salvezza. E’ questa una mentalità che riduce il rapporto con Dio a una “partita doppia” di dare e avere, meriti e demeriti destinata a sfociare in una presunzione illusoria o in una più realistica disperazione.
Per allenare il nostro sguardo ed allinearlo alla ben diversa logica della Giustizia divina occorre riconoscere che noi stessi per primi siamo bisognosi e beneficiari della misericordia di Dio. È questa la storia dell’Alleanza “sponsale” del popolo eletto con Dio in cui Israele, descritta da Osea come una moglie prostituitasi con gli idoli, viene riscattata dall’amore fedele ed incondizionato di Dio. Lo stesso Re Davide, servo di Dio e modello di giustizia, scopertosi adultero ed omicida per essersi preso la moglie di Uria l’Ittita, scolpisce questa consapevolezza nel Salmo 50 del “Miserere”. Queste intuizioni profetiche dell’Antico Testamento trovano compimento nel racconto evangelico, ove la condanna di un’adultera, prescritta dalla Legge mosaica, si scioglie alla luce della semplice richiesta che l’esecuzione sia iniziata per mano di un uomo senza peccati (e quindi non bisognoso egli stesso della misericordia che vorrebbe negare alla donna).
È questa la Giustizia del paradosso, dello scandalo, del superamento. È la Giustizia del Re-Dio che si fa Egli stesso servo e che da “Serva del Signore” innalza Maria a Regina del Cielo e della Terra. Nelle lingue semitiche, la radice consonantica “bd” (da cui l’ebraico “ebed JHWH” e l’arabo “Abdullah”: “servo di Dio”), è, in effetti, associata tanto alla condizione servile che a quella regale e, coerentemente, si trova applicata nelle Scritture a Mosè, a Davide e allo stesso Gesù (At 3, 13).
L’immagine misteriosa del servo sofferente, profetizzato da Isaia e Geremia e, prima ancora, prefigurato da Giobbe, giusto sofferente, si riflette in modo plastico e visivo nella serena e dolorosa “lesa maestà” impressa nel volto della Sindone. Quel volto, riprodotto fedelmente nelle icone dei primi tre secoli di cristianità, travalica la tradizione iconoclasta dell’ebraismo invitando a contemplare e a conservare la memoria delle sembianze di Dio fatto uomo, inscindibili dalle ferite infertegli dall’uomo.
Più ancora del Suo volto, ci accompagna nel nostro pellegrinaggio su questa terra lo straordinario e misterioso dono dell’Eucarestia, da intendersi non come premio dei (sedicenti) perfetti, quale lo intendevano i giansenisti, bensì come necessaria medicina dei peccatori.
L’occasione più bella per celebrare questo sacramento nel corso di questi esercizi è stato nella Santa Messa celebrata nella magnifica Basilica domenicana di Verona dedicata a S. Pietro Martire (che la pietà popolare la ricorda con il nome di S. Anastasia, dalla precedente chiesa che ivi sorgeva in antichità). L’omelia di P. Tommaso Reali sul già citato racconto evangelico dell’adultera –inseritosi mirabilmente nella narrativa di questa tre giorni di meditazione sulla misericordia– ha consentito di approfondire ulteriormente il modus operandi di Dio di fronte al peccato, radicato in una fedeltà ostinata, capace di continuare ad amare l’uomo anche nella sua infedeltà: all’offerta del perdono e all’occasione di rialzarsi si accompagna l’invito a ricominciare e a non voler più tornare sotto la schiavitù del peccato (“ora va e d’ora innanzi non peccare più” – Gv 8, 10-11).
Proprio perché il Regno di Dio si fa vicino all’uomo è infatti possibile formulare l’invito a convertirsi che non potrebbe realizzarsi senza l’iniziativa divina e senza che alla pietra su cui era scritta la Legge mosaica si sostituisca un cuore di carne rinnovato dal dono dello Spirito e reso capace di leggere nei segni tracciati sulla sabbia dal dito di Gesù la Nuova Legge, compimento e superamento di quella antica.
Denuncia e perdono sono le armi con cui Gesù affronta la realtà del peccato prendendone su si se’ le conseguenze senza mai rompere il vincolo di solidarietà con il peccatore. È questo l’ultimo compimento della profezia del Deutero Isaia sul servo sofferente perseguitato e messo a morte proprio da coloro che Egli, con il Suo sacrificio liberamente accettato, ha intenso salvare.
Gesù non si limita ad annunciare il perdono in modo generico e astratto ma fa della Sua vita terrena una continua ricerca e accoglienza di peccatori concreti, adattando la propria “prassi pastorale” alle caratteristiche e capacità dell’interlocutore: dall’emorroissa alla samaritana al fariseo Nicodemo. Per ciascuno vi è una diversa gradualità di approccio che rivela la sensibilità “materna” di Dio verso i suoi figli. Il predicatore deve partire da questo approccio individuale fatto di testimonianza di vita e sensibilità nell’ascolto, premesse necessarie per “incarnare” e rendere efficace qualsiasi dottrina.
Anche il laico del resto può offrire un servizio di direzione spirituale, sull’esempio di S. Caterina da Siena, e su quello ancora più risalente dei padri (“abba”) e delle madri (“amma”) del deserto, testimoni con la loro santità di vita prima che maestri. Non serve però rifugiarsi nella vita anacoretica per essere credibili ed efficaci. Al contrario, anche contesti mondani di convivialità possono rivelarsi assai propizi per creare un clima di comunione, di condivisione e di fiducia, come apprendiamo dallo stesso Gesù del quale si diceva che “mangiava e beveva con i peccatori”.
Occorre distinguere però la dimensione oggettiva della Fede, sintetizzata nel Credo, elemento comune e unificatore (“symbolum”) dell’annuncio evangelico (“kèrigma”), dalla dimensione soggettiva con la quale ogni cristiano interpreta ed incarna in modo personale la sua Fede, ponendo l’accento su un aspetto particolare percepito come più vicino alla propria sensibilità (o “Weltanschauung”).
Fanno parte di questa dimensione soggettiva non solo i carismi individuali ma anche quelli collettivi di ciascun Ordine, Movimento e Istituto all’interno della Chiesa. Lo Spirito, peraltro, anche all’interno di ogni comunità non manca di suscitare particolari carismi e sensibilità che costituiscono la ricchezza della Chiesa. Questo a patto che non si pretenda di assolutizzare un particolare tratto o accento soggettivo cercando di imporlo agli altri come verità di fede oggettiva. La Chiesa ha bisogno tanto della diversità quanto dell’unità delle sue membra che costituiscono il Corpo mistico di Cristo. Anche il carisma domenicano è poliedrico e si presta a declinare in infiniti modi l’equilibrio tra azione e contemplazione che lo caratterizza. Ciò che lo tiene unito è però prima di tutto l’essere nato dentro la Chiesa (da un’iniziativa episcopale) per realizzare i compiti che la Chiesa ha inteso affidargli (l’affiancamento dei Vescovi nella predicazione). L’obbedienza alla Chiesa è quindi elemento fondante del nostro Ordine che è chiamato ad eseguire il compito di volta in volta assegnatogli con la sensibilità e gli strumenti che gli sono propri.

Spetta in effetti alla Chiesa, dopo la conclusione della vita terrena di Cristo e la Pentecoste, il compito di farsi tramite della misericordia di Dio. Una misericordia che non deve sottrarsi dal denunciare il peccato, opporsi ad esso ed esigerne il rifiuto, ma che sa accogliere il peccatore pentito offrendogli un perdono senza limiti, in particolare nel sacramento della Riconciliazione. È su questo delicato binomio (denuncia/accoglienza) che si gioca la delicata missione della correzione fraterna che, attraverso la gradualità dell’approccio evangelico (a tu per tu, in presenza di uno o due testimoni e, infine, dinanzi alla comunità) può giungere sino all’estremo della scomunica. Anche questo strumento è infatti volto a destare la coscienza del peccatore, il quale non può guarire dal suo errore senza riconoscerne l’esistenza e determinarsi a prenderne le distanze.
In questo difficile compito possiamo contare sulla guida di Colei che viene definita “Madre di misericordia”, in quanto a sua volta resa oggetto in modo particolare dello sguardo misericordioso di Dio, come proclamato nel Salve Regina e nel Magnificat. Ed è naturale che questo titolo e particolare ministero siano affidati ad una donna che meglio sa esprimere la dimensione di accoglienza e la tenerezza “viscerale” dell’amore divino, come riconosciuto da Papa Giovanni Paolo I nella sua celebre proclamazione della “maternità” di Dio, accanto alla Sua paternità.
La conclusione di questi esercizi, con la Messa celebrata dal Priore provinciale Fausto Arici, graditissimo ospite della giornata conclusiva, è l’invito a prendere quindi Maria come Madre e Maestra nel cammino sempre aperto al riscatto e, nonostante le continue cadute, ascendente, che tutti siamo chiamati a percorrere da peccatori perdonati con fiducia nell’infinita misericordia di Dio.

Vittorio Zattra

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