Una critica del passato per un doveroso discernimento sul presente

A seguito della predicazione di un frate domenicano nella parrocchia di Calenzano, vicino a Firenze, dove era coadiutore, il giovane don Milani gli scrisse una lettera aperta che oggi riconsegniamo alla riflessione dei “predicatori” dei nostri giorni e, in particolare, ai membri della Famiglia domenicana. Partecipando in misura e in modi differenti alla missione della predicazione ed essendo inseriti in una tradizione che, fin dal suo Fondatore, conferisce una particolare sensibilità “dottrinale”, riteniamo che proprio i Domenicani siano chiamati a lasciarsi interrogare da questa Lettera, sicuramente datata e forse inattuale, ma certamente capace di avviare un profondo discernimento sul modo in cui proporre la verità salvifica del Vangelo alle persone che incontriamo.

Don Milani riporta l’attenzione sul piano della concretezza: non norme e prescrizioni da applicare, ma parroci che si prendono cura di persone con storie e situazioni precise, spesso fortemente laceranti, affinché seguano il Signore Gesù rimanendo all’interno della Chiesa. La persona in questione nella Lettera risponde al nome del giovane Giordano, educato dal padre all’ombra del Partito, operaio in fabbrica, portato da don Milani a poco a poco all’interno della vita parrocchiale, fino a partecipare ai sacramenti. Un predicatore chiamato appositamente da fuori, dopo averne ascoltato la confessione, gli chiede di strappare la tessera del P.C.I. al fine di potergli impartire l’assoluzione. Il fiero giovane si rifiuta, non per rifiutare la Grazia, ma perché non comprende per qual ragione possedere quella tessera – per lui simbolo di solidarietà tra simili e di nuove possibilità di vita – debba essere incompatibile con la vita cristiana. Nello scrivere a quel Domenicano, il futuro priore di Barbiana metterà in luce una differenza che scaturisce da un modo di entrare in relazione con i fratelli nella fede visti non come individui chiamati a conformarsi ad indicazioni decise in alto, ma persone che hanno bisogno di essere educate alla sequela. «Vede, Padre, la mia scienza è poca, la mia esperienza poi non si estende al di là di queste 275 case. Lei invece ha studiato, viaggiato e confessato tanto. Ma anch’io ho un dono che lei non ha: quando siedo in confessionale posso anche chiuder gli occhi. Le voci che mi sfilano accanto, per me, non sono mai voci e basta. Sono persone. Lei sente che si presenta a “una sposa”. Io invece so che è “la Maria”. Della Maria so tante cose, Padre. Un volume non mi basterebbe per dirle tutte. […] Conosco il suo Giordano meglio di lei che è mamma. […] Così dunque avviene che quella voce impersonale, sulla quale lei applica i testi e i decreti per me è carne della mia carne. […] Se tagliassimo netto come fa lei, taglieremmo su di noi stessi».

Rivolgendosi al popolo, quello stesso Domenicano predicò poi in modo tale da far sospettare al giovane Giordano che nella Chiesa non ci fosse mai stato spazio per uno come lui. Il commento di don Milani è quello di un padre: «Mi sentivo vicino a lui fino in fondo e estraneo a lei. Mi pareva di esser buttato fuori anch’io dalla chiesa e ci soffrivo perché avevo la certezza che dei due fosse più giusto ci stesse lui, che lei e me, nella chiesa di Cristo falegname». Ecco il problema che il giovane coadiutore di Calenzano riscontra nella predicazione del convinto Domenicano … una fedeltà dottrinale così maldestra che finisce per “buttare fuori” le persone dalle Chiesa o per farle sentire tali da essere escluse, perché astratta e quindi incapace d’incontrare la persona lì dov’è. Fallendo così nell’accompagnarla con pazienza lungo il cammino che conduce ad uno stile di vita che, per grazia, inizi a meglio corrispondere alle esigenze della sequela cristiana. Quanto il nostro studio, il nostro modo di interpretare la vita domenica ci aiuta a guardare concretamente e con pazienza alla persona alla quale desideriamo annunciare il Cristo? Queste pagine di don Milani continuano infatti a ricordarci, in vista di un fecondo discernimento, che «il cuore di un uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola. Per toccare qualcosa di profondo spesso occorrono non anni, ma generazioni. Padre, mi sento in questo come se fossi tanto più vecchio di lei. Tanto più vicino al lento modo di fare della Chiesa, la nostra vecchia Madre dai capelli bianchi».

Se non si ha ben presente che le dichiarazioni della Chiesa – e la teologia che le interpreta – sono per l’uomo e non l’uomo per le dichiarazioni della Chiesa o per la teologia, si smarrisce il senso stesso del magistero ecclesiale. La lettura della Lettera aperta a un predicatore risulta pertanto utile anche per fare un discernimento sul nostro modo di predicare: siamo fedeli al Vangelo? Conosciamo a sufficienza le prescrizioni del magistero? E soprattutto facciamo sì che anch’esse siano al servizio della Verità che fa liberi (cfr. Gv 8,32), facendo di tutto per includere piuttosto che escludere le concrete persone cui predichiamo il Vangelo di Cristo dall’interno della vita della Chiesa? Facendo forse inconsapevolmente eco al principio tomista quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur, che ricorda come colui che riceve un messaggio lo riceve inevitabilmente secondo la propria condizione, don Milani invita forse impetuosamente ad una predicazione che proceda dalla conoscenza dell’interlocutore, dalla sua storia, dalle sue fatiche e dalle sue sofferenze. Questa conoscenza è infatti segno di amore per coloro ai quali si è mandati a predicare; perfezionata dalla grazia, questa stessa dinamica giunge così ad incarnare – molto più di astratte adesioni ai principi o di applicazioni altrettanto insensibili alla realtà vissuta – l’ideale della caritas veritatis.

Per vivere cristianamente questo l’ideale divino della Verità, occorre essere radicalmente umani. Non ci può essere servizio della Verità che salva, senza empatia e, pertanto, senza misericordia. Una “verità” che ci difendesse dalla sofferenza implicita nel vivere l’umana condizione, a partire dai più piccoli, sarebbe solo un’equazione senza numeri, tanto esatta quanto sterile. Come è stato da san Domenico e da san Tommaso d’Aquino al beato Giuseppe Girotti, i frati dell’Ordine dei Predicatori non possono che lasciar scaturire l’intelligenza della fede dalla compassione misericordiosa per ogni essere umano svilito dal peccato e dalle sue conseguenze. Senza la compassione di san Domenico per la condizione di oppressione che – a causa di un’interpretazione falsata e maligna del cristianesimo – schiacciava molti abitanti del tolosano sotto il peso di un eretico odio di sé non avremmo avuto quella luminosa traditio d’intelligenza e di amore che lo Spirito Santo ha tracciato nella storia. Preghiamo il Signore di non tradirla separando la verità dalla misericordia, ma piuttosto di trasmettere il Vangelo con fedele creatività secondo quanto ha ricordato ultimamente papa Francesco: «Bologna col suo Studium aveva saputo rispondere ai bisogni della nuova società, attirando studenti desiderosi di sapere. San Domenico li incontrò spesso. Secondo una narrazione, fu proprio uno scolaro, colpito dalla sua conoscenza della Sacra Scrittura, a domandargli su quali libri avesse studiato. È nota la risposta di Domenico: “Ho studiato nel libro della carità più che in altri; questo libro infatti insegna ogni cosa».

fra Marco Salvioli

Tutto l’articolo di fra Marco Salvioli e il testo della lettera di don Milani nel prossimo numero (il n.5) di Dominicus.