«[…] L’animo nostro sia aperto nello stesso tempo e allo spirito di Dio e al cuore di coloro ai quali viene proposta la parola divina, perché ottenga la comunicazione della luce, dell’amore e della forza del Paraclito. I frati, pertanto, sappiano riconoscere lo Spirito che opera nel cuore del popolo di Dio e i tesori nascosti nelle varie forme della cultura umana, con le quali più pienamente si manifesta la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie che conducono alla verità. […]»

(Libro delle Costituzioni e delle Ordinazioni dei frati dell’Ordine dei predicatori, 99, § II)

Il tempo pasquale porta la nostra attenzione sulla missione dello Spirito Santo, che riempie e dirige la vita del cristiano e dell’universo fino alla totale e gloriosa rigenerazione secondo verità. Per questo, già dal lunedì precedente l’Ascensione, la liturgia della parola di rito romano ci preannuncia e ci suggerisce: “Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio” (Gv 15,26-27). Questo opera il nostro coinvolgimento e richiede la nostra partecipazione alla corsa della Verità verso la sua totale automanifestazione. E noi, fratelli predicatori, che come san Domenico prendiamo “l’ufficio del Verbo”, dobbiamo essere più solerti degli altri a rispondere a questa quotidiana, ma specialmente pasquale, chiamata.

Le nostre Costituzioni, principale testo di spiritualità per noi, incarnano proprio questa esigenza quando ci chiedono di essere “portatori insani” di questo Spirito, contagiati noi per primi “dalla luce, dall’amore e dalla forza del Paraclito”. Si tratta di un ruolo sacerdotale di mediazione che ben si addice in primo luogo all’ordine presbiterale, che, anche nel caso della professione come frate cooperatore, costituisce un punto di riferimento della nostra identità. Più profondamente, si tratta di un ruolo profetico, perché dobbiamo comparire davanti al popolo dei chiamati con l’efficacia stessa di Dio. In noi deve realizzarsi un vivaio interiore talmente fecondo e in vivo rapporto con la vita di Dio, da poter vivificare tutti coloro che ci circondano, e particolarmente coloro che ascoltano la nostra parola: “Stilli come pioggia la mia dottrina, scenda come rugiada il mio dire; come scroscio sull’erba del prato, come spruzzo sugli steli di grano” (Dt 32,2).

E non è solo questa l’analogia fra tale missione di tutta la Chiesa e il proprio del nostro speciale carisma. Se infatti, per nostra specifica vocazione, siamo chiamati a vivere “la vita apostolica nel suo significato integrale” – cioè non solo a “essere partecipi della missione degli Apostoli”, cooperando all’opera dei vescovi, loro successori, ma anche a “seguirne la forma di vita” (cfr. LCO 1, § IV) –, allora dobbiamo seguire gli apostoli anche nell’essere “ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità”. Così infatti essi hanno dato inizio all’opera della predicazione che noi oggi proseguiamo, come insegna la costituzione conciliare sulla divina rivelazione: “Gli apostoli, dopo l’Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano” (DV 19). E questo possiamo ancora fare grazie alla liturgia, in cui in verità si compie e si perpetua sempre viva l’opera della nostra redenzione, cioè il mistero pasquale. Infatti, nella veglia santa, “si è ridestata di gioia la terra, inondata da nuovo fulgore; le tenebre sono scomparse, messe in fuga dall’eterno Signore della luce”.

L’ultima parte della citazione dalle Costituzioni domenicane ci ricorda che il fondamentale primato della contemplazione sull’azione non vale soltanto per quanto riguarda la meditazione del dato rivelato, ma chiede anche l’ammirazione del suo dispiegarsi nel particolare contingente grazie all’azione invisibile dello Spirito Santo. Egli, infatti, ha già cominciato a lavorare prima di noi. Noi abbiamo il dovere e l’incarico di riconoscerne la presenza e i frutti, per poterci innestare nella sua opera forte e delicata.

Che cosa dobbiamo fare allora? Dobbiamo “saper riconoscere i tesori”. Dobbiamo essere esperti cercatori. Dalle mie parti, coloro che conoscono tutti i segreti per il reperimento dei funghi e dei tartufi vengono chiamati “fonsgiatt“, e la loro perizia è molto più che un mestiere, è un arte e un mistero iniziatico. Così dobbiamo essere anche noi, per rispondere alla nostra vocazione domenicana, alla persuasività dell’annua ricorrenza della Pentecoste e soprattutto alla voce del nostro Sposo: “Venite dietro a me, vi farò fonsgiatt di uomini, e della mia grazia!”.

fra Stefano Prina