21 aprile 2019

Veglia pasquale

Letture: Gn 1,1-2,2; Gn 22,1-18; Es 14,15-15,1; Is 54,5-14; Is 55,1-11; Bar 3,9-15.32-4,4; Ez 36,16-17a.18-28; Rm 6,3-11; Lc 24,1-12

Siamo culmine del Triduo pasquale. Nei primi tempi della Chiesa, questa solenne liturgia veniva celebrata prima dell’alba: non era una notte ma un’aurora santa! Si entrava nelle basiliche quand’era ancora buio e si usciva al sorger del sole: si voleva sottolineare il passaggio dalla morte alla vita, un’alba nuova si leva sull’umanità, l’alba della Risurrezione dove Cristo ha vinto per sempre la morte. Oggi per opportunità pastorali è anticipata alla sera del sabato, dopo il tramonto del sole. Questa veglia delle veglie è introdotta dai segni del fuoco nuovo, della luce con il cero pasquale e si innesta come culmine e vertice della storia della Salvezza, compendiata nella liturgia della Parola più ricca dell’anno. Quest’ultima parte dal racconto della Prima Creazione per giungere, attraverso le grandi tappe della fedeltà del Signore alle sue promesse, fino alla Nuova Creazione mediante l’opera redentrice di Cristo. Non si celebra la fine delle “notti dell’umanità”, che purtroppo si rinnovano spesso nell’oggi, ma la certezza che più nessuna notte può definitivamente separare la creatura dal suo Creatore. In altre parole, non c’è “immersione” (gesto proprio del battesimo), segno dell’esperienza del mistero pasquale, a cui non segua “l’emersione” (anticipazione della Risurrezione), come avvenne con Cristo nelle acque del Giordano. Paolo, nell’epistola ai Romani ce lo ribadisce con mirabile sintesi: «se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più…».

Il racconto evangelico esordisce con il mesto pellegrinaggio delle donne al sepolcro per il tradizionale rituale dell’imbalsamazione del cadavere, rituale in questo caso differito in osservanza al comandamento del sabato. La sorpresa, o piuttosto, lo sconcerto è grande, alla scoperta di una tomba vuota e apparentemente violata (la pesante pietra che ne chiudeva l’ingresso era stata rimossa). Non è certo la prima volta che l’evangelista Luca sottolinea implicitamente il fatto che la tradizione e la stretta osservanza della legge ostacolano l’incontro col Cristo! La tradizione, non è eliminata, ma deve essere totalmente reinterpretata e ricompresa alla luce dell’Incarnazione. È il messaggio veicolato dai due personaggi incontrati al sepolcro, che ci fanno pensare ai due compagni di apparizione del Cristo trasfigurato sul monte Tabor : ovvero, Mosè ed Elia (cfr. Lc 9,28-35). L’Antico Testamento si dà appuntamento nel giardino della Risurrezione, per ribadire che la Scrittura, tutta la Scrittura, non può che essere interpretata alla luce del Cristo.

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» Il cambiamento di paradigma è radicale: qui stiamo davvero parlando del vino nuovo che richiede otri nuovi capaci di contenerlo e questo sguardo nuovo, deve essere gettato anche sulla nostra stessa vita! E straordinario sapere che la morte non ha più potere su di noi! Ma che cosa significa veramente, visto che l’unico dato certo dell’umana esistenza è che un giorno moriremo tutti? I racconti evangelici, compreso quello di Luca che proclamiamo in questa Veglia, non ci presentano un racconto della Risurrezione, ma storie diverse di incontro con il Risorto… Questi incontri ci dicono, implicitamente, che si rinnova completamente il rapporto tra il Signore e i suoi discepoli. La vita eterna non è tanto un’altra vita che inizia dopo che questa terrena termina, ma è un rapporto nuovo d’amore tra noi e il Signore che la morte non può più distruggere. Il Signore lo aveva già detto a Marta, sorella di Lazzaro, in occasione della risurrezione di quest’ultimo: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà…» (Gv 11,25). In altri termini, la morte non ha più potere su di noi perché la nostra vita è ormai in relazione con Colui che ha sconfitto la morte. Certo, la morte, non perde la sua drammaticità, perché rappresenta una forma di estinzione, di dissoluzione… ma nonostante tutto, non può più distruggere quella relazione con Colui che ha detto: «Io sono». Ma per vivere fino in fondo questa relazione vitale, dobbiamo accettare che sia Lui a condurla, sorprendendo spesso le nostre attese e, soprattutto, impedendoci di “imbalsamarlo”, come avrebbero voluto fare le donne accorse al sepolcro di buon mattino. Solo accettando di non possederlo, solo vivendo “l’infernale esperienza” di apparentemente perderlo (come non ripensare qui la pericope del ritrovamento di Gesù fra i dottori del Tempio: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo»; Lc 2,48), possiamo dire di poter entrare in una nuova relazione con il Risorto. E l’incontro si trasforma in mandato, in esigenza di un annuncio immediato, lungi dal diventare un’esperienza intima ed intimistica. «Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore», il salmo 117 interpreta il dinamismo che orienta il cristiano trasformato dall’evento pasquale, che non può più attardarsi a cercare tra i morti il Vivente! La tomba vuota, come il Santo dei Santi del Tempio, che Pompeo troverà vuoto qualche anno più tardi, possono fornire uno spazio nuovo per i credenti invitati ad abbandonare le false immagini di un Dio trasformato in idolo. Al sepolcro non c’è nulla da vedere, c’è soltanto una parola da ascoltare, da accogliere e far fiorire nella propria esistenza.

Messa del giorno

«…noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute »

Letture: At 10,34.37-43; Col 3,1-4; Gv 20,1-9

«…Alla vittima pasquale, s’innalzi oggi il sacrificio di lode… Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa…». La sequenza del Víctimæ pascháli láudes, antico inno della chiesa che risuona oggi nella liturgia della Parola, sintetizza l’importanza cruciale dell’evento della Risurrezione del Cristo al cuore della storia non solo santa ma anche profana: è il definitivo “sbilanciamento” delle vicende umane nel senso della vita, di quella vita che non può più avere fine. La morte come evento ineluttabile dell’umano non è eliminata, ma depotenziata nel suo carattere definitivo e questo proprio perché il Figlio di Dio non l’ha fuggita ma attraversata.

Nell’esperienza della Pasqua non dominano i toni caldi della gioia incontrollabile ed incontrastata. Sono più i chiaroscuri ad occupare la scena: paura, incertezza, domande talvolta angosciate e evidente incredulità. Giovanni si affretta a dirci che «era ancora buio...», quando Maria di Magdala si recò al sepolcro; è la notte difficile da diradare dell’incredulità di Nicodemo, del pianto di Pietro o della disperazione di Giuda… Le tenebre sono immagine dell’incomprensione della comunità che ancora non ha compreso Gesù che si è definito “luce del mondo”, il suo messaggio, la sua verità. Questa incomprensione è anche evidenziata dal fatto che “l’epicentro della ricerca di fede” resta il sepolcro, ovvero l’unico posto dove il Risorto non può essere. Se si piange la persona come morta, cioè se ci si rivolge al sepolcro, non la si può sperimentare viva e vivificante nella propria esistenza. I compagni del Cristo inizieranno a sperimentarlo come Risorto, quando impareranno a staccarsi dalla sua tomba, quando accetteranno di lasciarsi alle spalle le vecchie pre-comprensioni, per lasciarsi chiamare per nome, e farsi rimettere in cammino… L’unico modo per restare in contatto con Lui, è quello di lasciarsi toccare da Lui, per poi portare questa esperienza agli altri.

Noi spesso ci immaginiamo alla ricerca del Signore, come Egli fosse il tesoro nel campo che ci attende ben nascosto in un punto preciso. Ma il vero messaggio della Risurrezione è che gli stesso si è messo sulle nostre tracce e ci trova. La Redenzione è lasciarsi trovare dal Signore, molto più che trovarlo. Sta forse in questa constatazione la possibilità di comprendere il “vide e credette!”, che descrive l’esperienza del Discepolo amato. Vide cosa? Un sepolcro vuoto, delle bende a terra… è lo scacco definitivo al cristianesimo inteso come adesione ad un programma di vita, ad un deposito dogmatico di definizioni da credere. Inizia il cristianesimo inteso come sequela, dove tutto dipende dalla relazione con Lui: Lui davanti, noi al suo seguito. Pietro ha sempre preferito la “corsa” di chi possiede già le sue “interpretazioni di buon senso”, ma il giorno di Pasqua comprende, forse per la prima volta, il vero significato del duro ammonimento del suo Maestro il giorno in cui aveva tentato di distoglierlo dalla missione salvifica che culmina nel mistero dei Tre Giorni: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,23; Mc 8,33). Sappiamo bene che la traduzione più fedele all’originale di questo brusco rimprovero del Cristo è: «Va dietro di me, Satana!», dove il Tentatore per eccellenza è colui che declina un messianismo del potere e non del servizio e che, così facendo, vanifica la Parola. La vera conversione diventa, appunto, sequela. «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso» – cioè rinneghi questi suoi ideali di successo e di potere, «e sollevi la croce» (Mt. 16,24) Solo così possiamo dire che la vera esperienza della Pasqua, rimette in piedi. Anche in questo, il Cristo ci precede! Colui che era morto, che la morte aveva disteso a terra, Dio Padre lo ha rialzato, rimesso in piedi. È esattamente il senso della parola greca «anastasis», che noi traduciamo con resurrezione. Allo stesso tempo, dopo la disfatta dell’arresto e della morte sulla croce, anche i suoi discepoli sono rimessi in piedi, e, di conseguenza, rimessi «in cammino» quando erano già «distesi, a terra»; sanno che è Cristo che li ha rimessi in piedi; nella fede, sanno che Cristo è vivo presso il Padre. La vera prova che Cristo è vivo e che possono riconoscerlo come loro «Signore», è che Cristo li ha rimessi in piedi e che li fa vivere della sua vita con il suo Spirito. Quanto ci ricorda Paolo, nell’epistola appena proclamata: «Fratelli, se siete risorti con Cristo, …rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-2), non deve, dunque, essere frainteso. Non è un invito al “disimpegno storico”, ad una sorta di atarassica indifferenza alla lotta del quotidiano, ma alla necessità di attraversare la storia senza aderire alle logiche della terra ma piuttosto a quelle del Dio incarnato in Gesù Cristo. Solo così capiremo che credere significa non addormentarsi nel Getsemani ma vegliare con Cristo e prendere sul serio le sofferenze di Dio nel mondo, affrontando, insieme alla croce del Golgota, anche l’interminabile “venerdì santo” della storia, con la certezza segreta che nasce dall’annuncio di Pasqua. A motivo di Pasqua «…è certo che nella sofferenza si cela la nostra gioia e nella morte la nostra vita», come ricordava il grande pastore tedesco Dietrich Bonhoeffer nelle sue Lettere dal carcere.

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