Mc 7,24-30:
Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. Ed egli le rispondeva: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Ma lei gli replicò: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». Allora le disse: «Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia». Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato.

Partito di là, andò nella regione di Tiro. “Là” è Gennèsaret, dove la gente era stata guarita in massa toccando “il lembo del suo mantello”. Là erano anche giunti i farisei da Gerusalemme, che avevano fatto irritare il Maestro con le loro obiezioni legalistiche. Sembra quasi che Gesù vada in terra straniera nauseato dall’ostinazione del popolo eletto. Che cosa dice questo a noi religiosi? Certamente che non tutto nella predicazione deve rispondere necessariamente a rigidi calcoli e pianificazioni. “Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo” (Papa Benedetto XVI). Del resto noi Domenicani sappiamo bene quale dev’essere il senso della nostra testimonianza di fede e dei nostri sacrifici: far arrivare ovunque “il soffio del Vangelo” (Papa Francesco). Non dobbiamo dunque arrovellarci come se si dovesse cominciare tutto da capo. Il primo nostro dovere è la gioia che sa “godere della presenza del Signore” (Papa Francesco). “Su, mangia con gioia il tuo pane / e bevi il tuo vino con cuore lieto, / perché Dio ha già gradito le tue opere” (Qo 9,7).

Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. Anche qui vediamo una difformità tra progetto e realizzazione, ma questo non scoraggia l’azione missionaria, né tantomeno la compromette. Anzi, il disegno di Gesù si sta realizzando proprio in questa fatica, proprio in questa impossibilità di imporre un progetto predefinito. “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Che cos’è stata, in fondo, la nostra scelta di consacrazione se non la scelta di far dipendere la nostra vita dall’energia della risurrezione? “Per me il vivere è Cristo” (Fil 1,21) era il nostro programma di vita, e lo deve essere ancora.

Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. Si ripete la situazione di Gennèsaret. La presenza di Cristo attrae. Non dobbiamo quindi aver paura di incappare nell’inefficacia. Gesù agisce soprattutto in modo invisibile. “Plagas, sicut Thomas, non intueor”. Chi di noi può misurare la grandezza dell’agire di Dio nel cuore delle persone, nel miracolo della conversione, anche graduale, di un’anima? “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”, e oltre ogni tentativo di censimento o spiegazione. “Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro” (Gv 20,30). Innanzitutto la celebrazione eucaristica, poi la celebrazione liturgica che si nutre della contemplazione e della meditazione della Parola di Dio, la costante ricerca della verità e della presenza di Dio, queste sono le armi più forti della nostra predicazione.

Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. L’attualità ci riporta esattamente alla situazione qui vissuta da Gesù e dai suoi discepoli. La presenza dello straniero si impone con evidenza e con i caratteri dell’inevitabilità. Lo straniero viene ad abitare nelle nostre stesse vite, e non possiamo far finta che ciò non sia vero. Lo straniero non è altrove, ma è talvolta più vicino a noi del connazionale, del cristiano. Lo straniero è nostro prossimo. E sappiamo bene che il Vangelo non dà possibilità di scelta o selezione nell’orientamento della carità: “Dio, che non tollera che tu dica ‘Darò domani’, come tollererà che tu dica ‘Non darò’?”, esclama sant’Ambrogio. Anche nell’azione della carità a comandare non sono i progetti. Non possiamo rifiutare la carità ad alcuni in vista di un fine più universale. Saremmo come quei farisei che avevano provocato, a Gennèsaret, lo sdegno di Gesù: “Voi dite: ‘Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio’, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. […] Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione” (Mc 7,11-12.9).

Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. Allo stesso tempo è la fedeltà a una tradizione, a un carisma che ci consente di essere vittoriosi sul male. Infatti, il nostro essere consacrati ci rende “nel mondo ma non del mondo” (cfr. Gv 17,14-16), e qui sta la nostra forza. Per questo le persone vengono a chiedere a noi un consiglio, un aiuto. Il mondo sa che non si può dare da sé la salvezza, non può trarre da sé stesso la soluzione decisiva ai propri problemi. E sa che, se una soluzione c’è, viene proprio da coloro che dichiarano di vivere in comunione con Dio. Questo ci impegna a vivere con serietà questa grazia e questo assoluto. Al tempo stesso, ci impegna a includere tutta l’umanità nella nostra preghiera, nei nostri pensieri, nel nostro desiderio di salvezza. “Chiederò per te il bene”. Questo significa ovviamente conservare, nel modo di vedere il mondo, una totale libertà rispetto al mondo stesso. Come diceva Paolo VI, il sacerdozio pone in un rapporto di salvezza rispetto al mondo: se, come discepoli, siamo salvati da Gesù, come ministri di Dio siamo con Cristo dalla parte di chi vuole e può salvare. Il religioso stesso, in quanto profeta, dice papa Francesco, “è libero, non deve rispondere ad altri padroni se non a Dio”.

Ed egli le rispondeva: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Ma lei gli replicò: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». Allora le disse: «Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia». Gesù ha in mente un pane da distribuire ai figli di Dio dispersi. Questo pane non è che lui stesso (cfr. Mc 8,13-14). Io credo che buona parte dei nostri frati – e penso soprattutto a quelli che hanno già alle spalle molti anni di vita religiosa – abbia già realizzato, e con generosità, questa partecipazione all’amore di Gesù, fino a donare tutte le proprie migliori energie per essere nutrimento per una umanità affamata. Soprattutto nel tempo della giovinezza, vi siete spesi con entusiasmo e con una forte carica di convinzione e di donazione, certi della verità della parola di Gesù. Nell’età più adulta, avete ricoperto importanti ruoli di responsabilità e di sacrificio, esercitando una paternità e una fraternità a volte estremamente scomode, fino a sacrificare la stessa dimensione delle consolazioni spirituali o alcuni progetti apostolici, a cui puntavate prima o poi di potervi dedicare. È vero: non bisogna disperdere le energie inutilmente, i sogni vanno coltivati, i progetti vanno stilati. Ma che bella sorpresa sarebbe, nell’ultimo giorno, scoprire che la persona a cui Dio ci ha mandato per aiutarla e liberarla dal male, la nostra “siro-fenicia”, era il nostro confratello o il nostro priore.

fra Stefano Prina