La solitudine è uno dei tratti fondamentali della vita di oggi.

Non è un problema solo per gli anziani o per chi, per vari motivi, non è integrato socialmente: riguarda tutti, in particolare e in misura crescente i giovani. Si è sempre più individualisti, rinchiusi in se stessi, gelosi di un proprio piccolo mondo personale che si vuole autosufficiente e timorosi di uscirne.

Si può discutere a lungo sulle cause, fare analisi e individuare soluzioni, elaborare teorie e proporre rimedi. Si immaginano e si propongono luoghi e tempi di socializzazione, spazi di incontro e di attività collettiva. Tutto questo va certo bene… ma non è di questo che voglio parlare, perché se poi mi sento comunque solo? Se avverto la solitudine come un muro che mi circonda e che non sono capace di infrangere? Se non la cercavo ma mi tocca subirla proprio negli ambiti in cui credevo di non doverla conoscere? Se mi sento tenuto fuori da quella calda comunicazione di affetto che con tutto il cuore desideravo e che ancora desidero?

Non mi resta che, solo, affrontare la solitudine, trovare il coraggio per ascol- tarla e dialogare con lei.

Dialoganti: Io (I), la Solitudine (S)

I: Esiste una solitudine buona e una cattiva?

S: No. La solitudine è una sola. Ciò che mi fa apparire buona o cattiva è il rapporto che hai con te stesso.

I: Insomma, di norma sei sempre sana e benefica, ma se io non ho un buon rapporto con me stesso diventi malvagia.

S: Non esattamente. Non sono io che divento malvagia. Funziono esattamente come un amplificatore: se ti ami, amplifico il tuo benessere. Se ti odi, purtroppo amplificherò il tuo dolore.

I: Quindi chi non sa amarsi dovrebbe evitarti come la peste.

S: Non risolverebbe nulla. Anche se si circondasse di compagnia continuerebbe a sentirsi dolorosamente solo.

I: Allora non c’è via di uscita.

S: Certo che c’è: accogliere il proprio dolore, nutrirsene come di un alimento benefico.

I: Questo è masochismo.

S: C’è una netta differenza. Il masochista vuole mantenersi nel dolore per farsi compatire e sfuggire alle proprie responsabilità: per lui il dolore è un fine. La persona auto-consapevole accoglie il proprio dolore sapendo che esso è un mezzo, e che terminerà una volta che avrà esaurito il suo compito.

I: E qual è il suo compito?

S: Quando mi fa male una gamba, immediatamente penso: “la mia gamba ha qualcosa che non va. Occorre prendere provvedimenti”. Il dolore psichico ha la stessa funzione: mi avverte che c’è qualcosa da fare per poter stare meglio.

I: Bene. Ma concretamente?

S: Concretamente, quando il dolore arriva, innanzitutto gli dici “grazie”. L’espressione di gratitudine è sempre il primo passo per instaurare un dialogo.

I: Dire grazie al dolore? Continua a sembrarmi masochistico.

S: Continui a confondere due cose molto diverse. Facciamo un esempio: se un amico ti critica per un errore, tu puoi avere tre differenti reazioni. La prima è arrabbiarti con lui. In questo caso, sei come colui che respinge il dolore anziché accoglierlo in sé: lo ricacci indietro, fingendo di non sentirlo. In questo modo egli continuerà  a  rosicchiarti come un tarlo, fino a ridurti l’anima come un colabrodo. La seconda reazione è quella masochistica: ti lasci aggredire e usi le critiche per alimentare l’odio verso te stesso. Dici: anche gli amici mi criticano, quindi sono proprio uno schifo, merito di star male. Questa è la via sicura verso la depressione. Infine, c’è la terza reazione: dire “grazie”. Ringraziando l’amico che ti ha criticato, accogli in te la sua critica, ne fai tesoro, la usi come un mezzo per migliorarti e per essere più felice. Ringraziare il proprio dolore è appunto questo: accoglierlo come un amico che mi sta aiutando a migliorarmi.

I: Ma questo vuol dire che devo desiderare il dolore?

S: Assolutamente no. Vuol dire solo che quando viene non devi respingerlo, ma dialogare con lui. Dialogando, ottieni due vantaggi: gli impedisci di impadronirsi di te, mettendo subito in chiaro che tu non sei il tuo dolore, siete due cose diverse. Inoltre, lo volgi a tuo favore, usandolo come un telescopio che ti permette di esplorare parti profonde del tuo universo interiore, che ancora non avevi mai osservato.

I: Ma una volta che l’ho accolto e ci ho dialogato, devo tenermelo addosso? Non posso più mandarlo via?

S: Non avrai nessun bisogno di mandarlo via. Se ne andrà da solo, quando avrà esaurito il suo compito.

I: E se invece non se ne va?

S: Se non lo fa vuol dire che non è il dolore sano, ma un dolore nevrotico: quello che produci tu stesso per farti del male. Rientra nella fattispecie del masochismo.

I: E come faccio a capire se è un dolore sano o nevrotico?

S: Te lo faccio capire io. Esisto appunto per questo.

I: Cioè? Basta starmene in solitudine per capirlo?

S: Basta chiamarmi in aiuto. Io provvederò a fare silenzio dentro di te, affinché tu possa ascoltarti. In tal modo capirai subito se il tuo dolore è disposto a dialogare (dolore sano) oppure rifiuta qualunque trattativa e vuole impadronirsi di te (dolore nevrotico).

I: E se sono vittima di un dolore nevrotico, come me ne libero?

S: Innanzitutto riconoscendolo come tale senza finzioni. Poi, chiedendo aiuto.

I: Alla solitudine?

S: Non solo a me. Non posso fare tutto da sola. Chiederai aiuto alle tue parti sagge, che abitano le stanze più segrete della tua coscienza, e contemporaneamente chiederai aiuto all’esterno. Dire con umiltà a un amico “ho bisogno di te, per favore offrimi il tuo ascolto”, farà un gran bene non solo a te, ma anche a lui.

I: E se amici non ne ho?

S: Qualcuno che possa aiutarti c’è sempre. Sarò io stessa a suggerirti un nome, se mi interpellerai.

I: Mi hai illuminato sul significato del dolore. Ma ho tanti altri dubbi.

S: Sono a tua disposizione per chiarirli, ma prima ti consiglio di assimilare quan- to ci siamo detti oggi.

I: Lo farò. Grazie di cuore.

S: Grazie a te.

La solitudine ineluttabilmente mi costringe a rientrare in me e mi permette di scoprire come ci sto, con me stesso. Mi pone la questione se mi voglio bene davvero.

Beninteso, c’è un amore cattivo per se stessi, che nella solitudine si amplifica e ci chiude nell’indifferenza, nell’apatia, nel disprezzo degli altri, in definitiva nella rinuncia rassegnata alla possibilità di essere felici. E c’è un amore buono di sé, che è l’unica possibilità che abbiamo per liberarci dalla prigionia dell’io e per andare incontro agli altri con benevolenza.

“Ama il prossimo tuo come te stesso”. Questo secondo comandamento della Legge che insieme al primo ne è per Gesù tutto il compimento, ci dice proprio questo: non c’è amore per l’altro senza vero amore per sé. Ed è ugualmente vero l’inverso: non c’è amore per sé senza vero amore per l’altro.

La buona solitudine è il deserto dove il cuore parla e dove Dio può parlare al cuore. Entrambi con la stessa voce ripetono l’antica domanda: “Dov’è tuo fratello?” e l’antico invito: “Esci e va!”.

fra Enrico Arata

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