Comunitarietà e canto nella nostra preghiera

Come si dice degli angeli, che stanno sempre davanti a Dio (“Io sono Raffaele, uno dei sette angeli che sono sempre innanzi alla presenza della maestà del Signore”, Tob 12,15; cf. Lc 1,19), così noi quando entriamo in preghiera siamo davanti a Dio, alla presenza di Dio, non solo quando stiamo in ginocchio ma anche quando stiamo in piedi, o quando stiamo seduti. Quando andiamo a pregare andiamo a fare visita a una persona importante, nientemeno che a Dio, ammesso che ci siano momenti nei quali non siamo davanti a Dio. Così nella preghiera, ad esempio, non si sta seduti per riposare, ma come uno dei modi di pregare; si sta seduti davanti a Dio come chi è in ascolto, è uno stare seduti come davanti ad un personaggio ragguardevole, a Dio appunto. Nella preghiera siamo davanti a Dio, dove la cosa più importante è lui. Questo sentirci davanti a Dio è la dimensione fondamentale da conservare sia nella preghiera personale che comunitaria: non facciamo dei riti e delle devozioni ma parliamo con Dio Padre, col Signore Gesù.

Davanti a Dio come un sol corpo ed un’anima sola

La prima qualità della preghiera liturgica è la sua dimensione comunitaria che è propria dell’azione liturgica la quale è di per sé ecclesiale (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 26), una azione di tutta la Chiesa, terrena e celeste insieme, nella quale sono coinvolte anche le singole persone, con una partecipazione piena, consapevole, attiva e fruttuosa (ivi, n. 14 e passim). Una delle grandi acquisizioni della riforma liturgica del concilio Vat. II, oltre all’aver dato maggior rilievo sacramentale alla Parola di Dio, è stata quella di aver recuperato la dimensione ecclesiale dell’azione liturgica, anche della messa, nella quale quella del ministero presbiterale non è l’unica partecipazione al sacerdozio di Cristo. La celebrazione, nella riforma liturgica dopo il concilio di Trento, era rimasta fondamentalmente clericale, quella del Vaticano II invece è ritornata ad essere ecclesiale, comunitaria, come era alle origini. Poi la storia, si sa, non va sempre in crescendo, ma si mescola a tante vicissitudini che possono anche oscurare talvolta il senso originale delle cose. Le riforme sono ordinate a questo: a ritrovare il senso delle origini, o a sottolineare pastoralmente un aspetto o l’altro. Così il rito romano ha conosciuto tante riforme nella sua storia, delle quali l’ultima, a mio parere, è stata altamente positiva anche se con qualche pecca, soprattutto nella sua attuazione da parte di alcuni battitori liberi. Ho avuto modo, nel mio insegnamento a scuola, di presentare agli studenti di teologia tutti gli aspetti della riforma liturgica, senza nasconderne anche i limiti e le incongruenze, come in tutte le cose umane. Ho cercato di aiutarli a leggere in modo critico (in senso buono) quanto è avvenuto nella storia, e ho cercato di far ragionare gli studenti anche sugli alti e bassi della storia ecclesiale, della stessa prassi dei papi: un papa bolla e uno sbolla, si dice. Anche i papi non si sottraggono agli influssi storici della loro esperienza personale o di studio, e del ‘sentire’ di quanti gli stanno a fianco per aiutarlo. Del resto la storia è un giudizio su quanto è accaduto, alla luce dei fatti e delle vicende seguenti. Evidentemente la liturgia aveva bisogno di una riforma, come la Chiesa, che è semper reformanda.

Possiamo portare un esempio riguardo la messa e il culto eucaristico. Cosa è più importante in una chiesa cristiana, il tabernacolo o l’altare? Evidentemente l’altare, segno del sacrificio di Cristo, mensa del pane e del vino e roccia dalla quale sgorga l’acqua dello Spirito (prefazio della consacrazione dell’altare). L’altare è Cristo. Il tabernacolo ha la funzione di conservare l’eucaristia per il viatico e la comunione ai malati, e poi per l’adorazione eucaristica, che è una continuazione della messa. Una volta un confratello che concelebrava ad una messa, si mise dietro colui che presiedeva l’eucaristia, per non voltare le spalle al tabernacolo che aveva di fianco, come se il Gesù del tabernacolo fosse più importante o fosse un altro Gesù rispetto al Gesù che era sull’altare. O come quei fedeli che fanno la genuflessione al tabernacolo dopo che il sacerdote li ha comunicati. Il Gesù che abbiamo ricevuto vale di meno del Gesù del tabernacolo? Si racconta a questo proposito che un certo santo, non ricordo chi, abbia mandato due chierichetti con i candelabri accesi a seguire una signora che aveva appena fatto la comunione e stava uscendo di chiesa. Il segno era giusto. Da alcune parti nel momento della consacrazione alla messa si fanno intervenire sei accoliti coi candelabri a sottolineare il momento della consacrazione, come se il memoriale del Signore sia ordinato alla consacrazione e non alla “cena” (prendete e mangiate, prendete e bevete). È evidente, in questo, l’influsso del culto eucaristico fuori della messa sorto a partire dagli anni mille (quando non si faceva che raramente la comunione, se non per visione dell’ostia) e sviluppatosi soprattutto come scelta pastorale antiprotestante, come “controriforma”. Ricordo che su questa scia, quando ero ragazzo, al mio paese nel primo venerdì del mese si esponeva solennemente il santissimo mentre in un altare laterale si celebrava sottovoce la messa, e la comunione la si faceva o prima della messa o dopo la messa. Così apparteneva alla controriforma il fatto di consacrare delle grandi pissidi e fare la comunione attingendo dal tabernacolo e non dal pane della messa che veniva celebrata. Ancora questo uso non è scomparso, nonostante che la riforma liturgica del Vaticano II abbia ormai cinquant’anni.

Il primo aspetto comunque da sottolineare è che nella celebrazione liturgica siamo davanti a Dio come un corpo solo, un elemento che appartiene anche alla nostra spiritualità domenicana dove le Costituzioni, e la Regola, sono uniche per tutti. Anche le nostre Costituzioni (mi riferisco qui in particolare a quelle dei frati) hanno conosciuto nei secoli delle riforme, pur rimanendo sempre fedeli a se stesse; oggi tutti dobbiamo vivere secondo le regole vigenti. Per noi frati domenicani le ultime Costituzioni risalgono al 1968 quando con un grande lavoro collettivo, durato tre anni, che ha coinvolto ogni singolo frate, si è rivisto integralmente il libro delle Costituzioni. Queste, ora, sono le Costituzioni che l’Ordine si è dato, e che dobbiamo osservare per essere domenicani oggi; non si è pienamente domenicani fuori da queste Costituzioni; non sarebbe maggiormente domenicano se uno volesse seguire le Costituzioni precedenti. Ora da noi, anche la nostra liturgia appartiene alle nostre Costituzioni, da sempre. Il fatto liturgico è un fatto unitario, che esige fedeltà, anche se avessimo idee personali diverse. Come in una orchestra l’importante è seguire uno spartito unico e la guida del direttore. Si sbaglia sia rifacendoci ad usi precedenti, sia andando oltre il dettato attuale. Dobbiamo essere accordati su questo come le corde di una cetra, diceva già il martire sant’Ignazio, parlando del rapporto della comunità col proprio vescovo. Nel nostro Ordine la liturgia non è personale ma dell’Ordine, stabilita dai Capitoli generali. Come non ci sono tante Costituzioni quanti sono i frati, così non ci sono tante liturgie quanti i gusti di ciascuno. Qualcuno si appella alla libertà e alla creatività o alla tradizione, ma c’è il rischio che ognuno vada per la strada sua, in barba a tutti i discorsi sulla comunità. Che celebrazione conventuale sarebbe se fosse solo di alcuni! Da noi non ha senso una liturgia straordinaria e una ordinaria. Avere due liturgie divide le comunità, o separa una comunità o una provincia dal resto del’Ordine. La storia dell’Ordine purtroppo è piena di divisioni. All’inizio dell’Ordine si è fatto un lungo lavoro per arrivare ad una ritualità comune, oggi il processo sembra inverso. Ciò non toglie che si possa cambiare qualcosa nelle nostre consuetudini liturgiche, basta fare delle petizioni ai Capitoli generali.

Particolarità della nostra liturgia

Dopo il Concilio Vaticano II e le Costituzioni del 1968, l’Ordine si è interrogato sul fatto liturgico, rispetto alle consuetudini precedenti, e nel capitolo generale di Madonna dell’Arco del 1974 ha fatto le sue scelte e le sue precisazioni. Pur adottando i libri e il rito romano, ci si chiedeva se non fosse conveniente che l’Ordine conservasse alcune sue consuetudini. Ciò è stato fatto nel Capitolo generale, appunto, del 1974. Queste norme sono state pubblicate in seguito anche nel Supplemento latino alla Liturgia delle Ore (1982), e nelle vari edizioni in lingua volgare. In questo modo possiamo frequentare tutti i conventi dell’ Ordine e ritrovare noi stessi nella liturgia che si celebra in quel luogo, pur con la lingua e gli adattamenti dovuti alle varie culture e situazioni contingenti. A questo proposito vorrei ricordare che il nostro abito non è solo un abito religioso, ma anche liturgico. Da sempre, ad esempio, si è celebrato la Liturgia delle Ore non con le vesti canonicali (cotta o alba) ma col nostro abito; talvolta in alcune celebrazioni, come nelle vestizioni, professioni ed esequie, colui che presiedeva indossava la stola sopra la cappa. Diverso il caso della messa e dei sacramenti, per i quali sono prescritti determinati vesti o paramenti. Ma per confessare, ad esempio, non abbiamo mai indossato la cotta, ma soltanto la stola. La nostra liturgia non è canonicale, ma domenicana.

Insieme agli angeli e ai santi cantiamo

Una seconda caratteristica della liturgia in genere e delle consuetudini liturgiche domenicane è il canto. Si sta davanti a Dio cantando. Una costante nei prefazi è di introdurre il canto del Santo più o meno con questa formula: “…uniti agli angeli e ai santi, con voce unanime cantiamo l’inno della tua gloria”. Si richiamano in questa espressione tre cose: primo, che nella nostra liturgia è coinvolta tutta la chiesa, anche la chiesa del cielo; secondo, l’unanimità, a una sola voce; terzo: il canto. Sempre si parla di cantare. Soltanto alcuni prefazi di nuova composizione dicono, in italiano, “proclamiamo” invece di cantiamo, alludendo al fatto che spesso il Santo oggi non viene cantato ma solo proclamato. Ma i termini proclamare e cantare sono abbastanza sinonimi nella liturgia. Un tempo da noi la messa conventuale era sempre cantata, da cima a fondo, letture comprese; in modo più o meno solenne ma sempre cantata, mentre le messe private erano recitate. Le liturgie ortodosse e orientali, tuttavia, hanno sempre conservato la caratteristica del canto, e gli officianti sono sempre dei bravi cantori, con la voce ben impostata.

Perché una liturgia cantata? Navigando su internet ho trovato un breve scritto dal titolo: Cantare e suonare nella liturgia, nel quale potete trovare qualche buon spunto di riflessione, sia da un punto di vista umano, cioè il canto e la musica nell’esperienza dell’uomo; sia da un punto di vista cultuale e più specificamente cristiano. I cristiani sono quelli che cantano, che si riuniscono a cantare (Plinio il giovane). Forse i cristiani l’hanno imparato dagli angeli a Betlemme, ma già gli ebrei cantavano, basti vedere il salterio, col quale però si designa lo strumento musicale che accompagnava il canto più che il contenuto del canto. E quanti strumenti per accompagnare il canto sono ricordati nei salmi! I miei confratelli musicisti potrebbero dirvi egregie cose su questo argomento. A me preme soltanto, qui, sottolineare l’importanza del canto nella liturgia dell’Ordine come appare nelle nostre consuetudini. Nel codice, conservato a Santa Sabina in Roma, nel quale è riportata la primitiva liturgia dell’Ordine, c’è anche il canto, che si rifà sostanzialmente a quello cistercense, anche se con alcune semplificazioni, per rendere le melodie più semplici e concise. Ricordo i libri che avevamo per il canto: Graduale (per la messa), Vesperale (per il vespro), Antifonario (per tutti i canti dell’Ufficio), il Completoriale (per compieta), il Processionario (per le processioni, e le altre celebrazioni), il Triduo pasquale.

Anche la liturgia delle Ore era tutta cantata, come era nello stile monastico che abbiamo ereditato. Le melodie di canto variavano, da quelle più semplici a quelle più elaborate. I salmi avevano delle melodie semplici, più cantillazioni che canti, negli otto toni gregoriani. Però se qualche comunità non era in grado di cantare delle melodie più elaborate, si pregava con un canto lineare monocorde, recto tono, come si dice in latino, che è un vero canto, non una recitazione, usanza forse troppo facilmente lasciata cadere. Certo il pregare con il popolo può richiedere un modo più semplice ancora del recto tono, ma anche ai nostri fedeli piace cantare. L’ho sperimentato anche con i giovani ai campi scuola. Ricordo quando ero ragazzo che ogni domenica pomeriggio nelle parrocchie si cantava il vespro, in latino, e tutti cantavano a memoria. Fu una delle riforme di Pio X.

Quello dei salmi è un canto cadenzato, con le sue pause, e unanime, e a coro (parola che ha dato il nome anche al luogo dove si prega, come la parola chiesa, che designa la comunità raccolta in preghiera, ha dato il nome all’edificio dove ci si raduna a pregare). Pregare a modo di coro, dove il ritmo è uguale per tutti, dove uno non soverchia con la sua voce gli altri, e anche dove non si ha fretta di finire. Il breviter et succinte, che caratterizza lo stile della nostra celebrazione rispetto alla celebrazione monastica, non è indice di fretta e di togliere ogni pausa, ma di pregare con un nostro ritmo proprio, che si è tramandato nei tempi in tutti i nostri conventi, e che non è né quello monastico né quello canonicale né quello parrocchiale. Ed è, la nostra, una preghiera fatta a due cori, più che tra solista e tutti, soluzione, quest’ultima, che è comprensibile quando la comunità è piccola e non è in grado di dividersi in due cori.

Nella riforma liturgica, nel passaggio tra il tutto cantato e il tutto recitato, si è voluto introdurre il criterio della solennità progressiva, sia nella partecipazione di uno o più ministri, sia nelle vesti e negli ornamenti che, soprattutto, nel canto. La maggiore o minore solennità è data soprattutto dal canto. Il documento capitolare del 1974, al n. 8, ne tratta espressamente; lo trascrivo per comodità: «La celebrazione conventuale della liturgia esige che si curi la qualità del suo svolgimento. Il canto le si addice in modo particolare. Tuttavia ci si dovrà utilmente servire del principio della ‘solennità progressiva’, sia per il canto che per gli altri aspetti delle varie azioni liturgiche. In tal modo ogni comunità, considerate le proprie possibilità concrete, il proprio ritmo di vita e i diversi tempi liturgici, tenderà a un modo di vivere la liturgia che sia consono alla propria esperienza, in modo da glorificare Dio e nello stesso tempo nutrire adeguatamente la vita spirituale dei membri della comunità» [cf. OGMR, nn. 39-40 per la messa; PNLO, n. 273, per l’Ufficio; LCO (Costituzione dei frati), n. 85; LCM (Costituzioni delle monache), n. 82].

Ma questo vale per tutta la preghiera liturgica. Se, ad esempio, l’Ora media viene “recitata”, non significa che deve essere abboracciata, tirata via. È sempre davanti a Dio, come anche Compieta.

Davanti a Dio anche a tavola

Non appaia superflua l’ultima annotazione che siamo davanti a Dio anche a tavola. I discepoli di Emmaus hanno fatto esperienza del Signore proprio a tavola. La prima comunità cristiana si caratterizza per il mangiare insieme in letizia e semplicità di cuore, lodando Dio. Per questo nella tradizione cristiana, specialmente nella vita religiosa, come del resto nella tradizione ebraica, anche il mangiare insieme assume una tonalità quasi liturgica. Il nostro mangiare insieme non è un fatto puramente umano. Convenientemente, pertanto, lodiamo Dio all’inizio e al termine dei pasti, per cui possiamo chiamare il nostro mangiare insieme come uno “spezzare il pane quotidiano”. Un tempo noi frati ci si disponeva a mangiare come in coro, oggi si privilegia il mangiare a piccoli gruppi per dare modo di poter parlare insieme più agevolmente. Tuttavia anche le disposizioni recenti chiedono a tavola di leggere qualche versetto della Sacra Scrittura prima dei pasti principali, e anche qualche tempo di ascolto, in silenzio, di testi di riflessione comunitaria. Prima del pranzo c’è anche l’usanza di pregare per i nostri fratelli, sorelle e benefattori defunti. Non conviene, tuttavia, che la preghiera di benedizione prima dei pasti consista nel Padre nostro, per conservare la tradizione di recitare il Padre nostro tre volte al giorno (lodi, vespro e messa).

Recuperando questo senso religioso dei pasti, anche la benedizione che li accompagna avviene davanti a Dio come ogni preghiera: che sia veramente una preghiera, non a spron battuto, durante la quale non si faccia altro che pregare, e il sentirci davanti al Signore, lodando lui (cf. Liber beneditionum et precum OP, un benedizionale in attesa di approvazione, al cap. III). Le preghiere alla mensa le facciamo proprio come preghiera? Se no meglio non farle.

fra Raffaele Quilotti