Su teologia e università in Italia oggi

Un rifugio di verità. È in questi termini che, all’interno di una celebre riflessione sul rapporto tra verità e potere politico, Hannah Arendt pensa l’università. Prendendo spunto da questa intuizione, Juan Carlos De Martin – professore al Politecnico di Torino e autore del bel libro Università futura (2017) – aggiunge che in un contesto democratico il senso dell’università consiste nel “dire verità”. Un compito al quale la comunità accademica sarebbe obbligata proprio in forza di quelle garanzie di autonomia e di libertà che le sono dovute in quanto istituzione finalizzata al servizio della preservazione, della trasmissione e dell’incremento del sapere. Per realizzare questa triplice finalità, secondo De Martin, l’università è chiamata innanzitutto a riscoprire le sue radici, adattandole alle sfide della contemporaneità, per aprire orizzonti multi/transdisciplinari capaci di affrontare le complesse problematiche attuali, che non possono essere risolte nei confini angusti della – per tanti versi irriducibile – iper-specializzazione disciplinare. Si tratta quindi, per l’università, di riappropriarsi di quel peculiare assetto istituzionale che, generatosi nel medioevo all’insegna della celebre espressione universitas magistrorum et scholarium, non può essere forzatamente costretto nel quadro dei parametri aziendalistici imposti dai dogmi, per altro sempre più inaffidabili, dell’epoca neoliberista. A meno che non si voglia consapevolmente sottomettere la trasmissione e l’ampliamento del sapere, per non dire della stessa ricerca del vero, ai criteri imposti dai “mercati” che tendono a orientare tanto le proposte dell’accademia aziendalizzata, quanto le aspirazioni degli studenti sempre più considerati e spinti a considerarsi come clienti. Per incamminarsi, da un lato, verso una sempre più necessaria visione d’insieme che tenda all’unità dei saperi, senza anestetizzarne le differenze costitutive e per resistere, dall’altro lato, al riduzionismo istituzionale imposto dalle logiche neoliberiste complici dell’impianto tecnocratico, occorre a mio avviso ritrovare la fiducia nella capacità di conoscere il vero che ha permesso a studenti e a maestri di accorparsi per dar vita alla prima comunità universitaria. Solo l’amore per la verità, e non la ricerca dell’utile che deriva dalle ricerche più disparate, può animare quell’avvincente avventura del pensiero orientata all’universitas studiorum, ossia alla costituzione di quel singolare “volgersi verso l’unitotalità degli studi” che diviene istituzione per continuare nel trapassare delle generazioni. All’interno dell’auspicata ripresa delle radici e nel contesto dell’irrinunciabile tensione verso l’unità dei saperi, se consideriamo in particolare le università italiane – mettendo tra parentesi qualche rara eccezione – non può non attrarre l’attenzione la traccia eloquente di un’assenza. Mi riferisco evidentemente alla facoltà di teologia, esclusa dall’ordinamento universitario italiano con legge del 26 gennaio 1873. Sono quindi quasi centocinquant’anni che la teologia in Italia vive in una condizione di pressoché totale isolamento rispetto agli altri saperi, facendo il paio – per altri versi – col sempre più evidente analfabetismo religioso che, anche in ambito accademico, impedisce di pensare adeguatamente il cristianesimo in quanto aspetto determinante del pensiero occidentale. Se per ragioni dettate tanto dalla laicità dello stato, quanto dallo statuto ecclesiale della scienza teologica, la relazione tra università e teologia in Italia non può essere istituzionalmente spinta oltre il limite di un rispettoso “vicinato”, non si è per questo costretti a dimenticare le opportunità di un dialogo tra la riflessione scientifica sulla Rivelazione e i saperi acquisiti dalle sole forze della ragione. Diversi sono i vantaggi che ne derivano. La teologia, infatti, studiando Dio in Cristo come origine e fine di tutte le cose, sostiene la ragionevolezza di una ricerca delle relazioni tra i saperi in vista di un’unità sottesa, ma non ancora manifesta; richiede alla ragione di confrontarsi con il sapere dell’Altro che l’aiuta ad ampliare i propri confini e ad occuparsi delle domande, ad un tempo, più alte e radicali ; custodisce infine, con fondato realismo, l’esigenza di onorare la dignità della persona umana e di perseguire il bene comune. Per converso la teologia, ossia –com’ebbe a dire Gilbert K. Chesterton – quell’aspetto della religione che fa uso del cervello, non può che trovare nel dialogo con i saperi coltivati nelle università stimoli indispensabili per il suo aggiornamento e per il perfezionamento delle sue stesse conoscenze. Senza la teologia, infine, ogni singola disciplina rischia di “divinizzare” il proprio oggetto di studio e i propri metodi; senza gli apporti – anche e soprattutto critici – dei saperi, la teologia rischia di isolarsi riducendosi ad animare “scuole professionali per preti”. Rispetto ai grandi interrogativi suscitati dalle recenti scoperte tecno-scientifiche, dall’incontro tra le culture favorito dalla globalizzazione o dalle crisi economiche ed ecologiche, che riaprono la questione de homine in termini inediti, privarsi del confronto con la teologia costituirebbe una scelta quantomeno irragionevole. È per questo che, con sensibilità post-moderna, non posso che riproporre agli universitari la sfida lanciata all’occidente secolarizzato dall’allora cardinal Joseph Ratzinger nel discorso di Subiaco L’Europa nella crisi delle culture (2005), ripresa poi col nome di Benedetto XVI nella forma di un singolare appello rivolto ai “non credenti” (2012). E non certo perché l’odierna universitas magistrorum et scholarium sia costituita solo da costoro, ma perché – come ha ben mostrato Brad S. Gregory ne Gli imprevisti della Riforma (2014) – la grande maggioranza delle università occidentali sono ormai giunte, pur attraverso un travagliato percorso storico, ad escludere in radice il sapere rivelato ut sic dal proprio orizzonte. Affinché l’università continui tuttavia ad essere una comunità orientata dalla ricerca del vero, capace di trasmettere ed ampliare i confini del sapere in modo tendenzialmente unitario, occorre avere il coraggio di invitare docenti e studenti a “pensare” «veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse». È questo il compito che, nel tempo della secolarizzazione della conoscenza, le facoltà di teologia italiane – pur attestandosi accademicamente all’esterno del perimetro universitario – possono e, nei limiti del possibile, devono portare avanti in dialogo con i docenti e gli studenti delle università degli studi.

fra Marco Salvioli[/fusion_text][/one_full]]]>