In questi giorni sto leggendo un libro lungo, difficile, sconvolgente. Si intitola Twice in One Day (Due volte in un solo giorno); l’autore, un mio amico che si chiama Charles H., racconta gli anni vissuti sul Braccio della morte nel Texas.
Ho conosciuto Charles tramite l’organizzazione britannica Lifelines, dedicata a instaurare e nutrire rapporti di amicizia epistolari tra carcerati americani condannati a morte e persone più fortunate, la cui vita è priva della drammaticità di chi vive in perenne attesa di essere giustiziato. Sono uomini e donne, in maggioranza afroamericani, quasi tutti provenienti da famiglie segnate da problemi quali la povertà, l’alcolismo, la tossicodipendenza, il divorzio, la promiscuità. Sono pochi quelli che sono riusciti a frequentare la scuola superiore, per cui spesso hanno difficoltà nell’esprimersi e a volte s’imbarazzano della grammatica incerta, dell’ortografia … creativa. Si vergognano, all’inizio della corrispondenza chiedono continuamente scusa; poi, conoscendo meglio l’amico o l’amica di penna, man mano si rilassano e cominciano a confidare le speranze, le angosce, i sogni. Molti sono stati abbandonati dai famigliari e le lettere in quei casi sono doppiamente preziose.
Sono ormai cinque anni che faccio parte di Lifelines. Può capitare, come mi è successo con Willie J., californiano, che la corrispondenza si fermi; in tal caso rispettiamo la scelta del carcerato, che forse ha ristabilito un rapporto importante con i parenti, gli amici o il coniuge. Invece con Charles e anche con Eric C., nonostante entrambi abbiano il sostegno di qualche persona cara, lo scambio non si è mai interrotto.
Di che cosa si scrive? Al momento dell’iscrizione a Lifelines, viene offerta la guida sia di un documento che spiega soprattutto alcune regole e informazioni (la possibilità di utilizzare un sito internet per mandare non soltanto lettere ma anche foto e persino soldi; cosa non mandare mai; quale genere di regalo si può mandare e non), sia di una persona che fa da coordinatore per lo stato che “ospita” il carcerato in questione. Il consiglio è di scrivere delle cose di tutti i giorni, senza paura di suscitare invidia o amarezza: infatti, come conferma l’esperienza, i nostri amici godono della nostra libertà e del ritratto che possiamo offrire della normalità. Così si può parlare del tempo, di quali fiori crescono in giardino, dell’animale domestico, dei progetti per le vacanze, del film appena visto, dello sport… Con Charles e Eric abbiamo anche parlato di musica (possono ascoltare la radio, pur vincolati dai gusti altrui) e di cosa si mangia, per tradizione, nei giorni di festa. Così ho imparato il menù del Thanksgiving. Mai si chiede il motivo per il quale erano stati condannati. A volte invece sono loro stessi a sollevare l’argomento, il che segna il raggiungimento della piena fiducia.
Charles, un bel ragazzo bianco, alto e muscoloso, fu condannato all’età di diciannove anni; ora ne ha 42. Pochi mesi fa, grazie al riconoscimento del fatto che il giudice del suo caso non ha rispettato i suoi diritti, è stato trasferito in una struttura dalla quale ha il permesso di uscire tutti i giorni, sempre sotto la custodia del personale carcerario, per lavorare in una fabbrica. Alla fine della giornata di lavoro può andare in palestra e fare la doccia prima di tornare in cella: privilegi, questi, negati a chi sta nel Braccio della morte. In questi anni, come afferma lui stesso, è cambiato molto: da ragazzo ribelle a persona adulta e responsabile, che prega e frequenta volentieri le funzioni presiedute da un pastore della chiesa evangelica. Sta anche studiando sui testi di giurisprudenza nella speranza di poter affrontare un nuovo processo. Mi ha confidato di recente che se potesse votare nelle elezioni presidenziali, sosterebbe Donald Trump: su questa scelta ho preferito non commentare!
L’altro amico, Eric, è afroamericano; anche lui è in prigione da più di venti anni. Ha già pubblicato due libri grazie dell’aiuto di amici: il primo di poesie, il secondo nella forma di un’antologia di ricordi e pensieri con la voglia dichiarata di convertire chi legge alla fede cristiana. Che pratica, come Charles, nel contesto della chiesa evangelica. Ammette di essere stato un adolescente irrequieto, irresponsabile, che cercava la compagnia di ragazzi dediti ad atti trasgressivi: vandalismo, risse, piccoli furti; ma insiste sul fatto di non aver commesso l’assassinio del quale è accusato. Ora il suo sogno, dopo tanti anni passati rinchiuso nel Braccio della morte, è di dimostrare la propria innocenza e così diventare uomo libero, responsabile, e poter sposare l’amata Claire e seguire da vicino il figlio, ormai quasi adulto.
Eric scrive con una certa eleganza;le sue poesie, nella loro semplicità, testimoniano una sensibilità alla rima e alla metrica non comune in persone di scarsa cultura,così come i dialoghi riportati nel secondo libro mettono in evidenza una spiccata capacità di rendere in modo vivace e convincente il registro colloquiale. Ne emerge, come anche nelle pagine ben più rozze di Charles, una personalità che in circostanze avverse ha raggiunto la maturità.
La suora americana Helen Prejean della Congregazione di San Giuseppe, autrice del libro Dead Man Walking, lotta da anni contro la pena di morte. Sr Helen insiste, giustamente, che non soltanto è poco sensato uccidere una persona per dimostrare che uccidere è sbagliato, ma che la vera crudeltà sta nel fatto che molti dei condannati vivono per decenni sotto la costante minaccia della sedia elettrica o l’iniezione letale. Come amano dire i nostri fratelli del Capitolo laico domenicano della prigione di Norfolk, Massachusetts, ogni santo ha un passato, ogni peccatore un futuro. Chi può dire che uomini e donne che, come Charles e Eric, hanno commesso un grave errore da ragazzi non abbiano in loro la capacità di crescere verso la santità? Il nostro padre san Domenico pregava spesso, tra le lacrime, chiedendo al Signore: “Che ne sarà dei peccatori?” La risposta di troppe nazioni del mondo è una brutale sentenza che toglie ogni speranza di conversione e redenzione in questo mondo; invece la misericordia di Dio è tale da offrire anche al peggiore peccatore una possibilità di trasformazione di vita e di salvezza. Scrive sr Helen: “La pena di morte è tra le questioni morali che bisogna affrontare […] eppure la maggior parte delle persone ci pensa raramente e pochissimi trovano il tempo per studiare a fondo la questione in modo di poter decidere in merito sulla base delle informazioni”. Un contatto personale con i carcerati permette di conoscere lo stato d’animo, le aspirazioni, la dimensione profondamente umana di individui che sono stati scartati dalla società.