Nel suo messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace papa Francesco esorta a fare della nonviolenza il nostro stile di vita, perché(…) essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Mi ritornano con forza in mente le parole di Gesù che inaugurando il suo ministero proclamava: “beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5)
“Mite” non è la traduzione migliore per il termine usato nel testo originale greco, meglio sostituirla con “nonviolento”. La ragione sta nel fatto che la mitezza è al di qua della collera, dell’indignazione e della rivolta, mentre la nonviolenza è al di là della collera, che è si è arrivati a superare mettendola davanti a Dio. Mite è pertanto chi rinuncia a farsi giustizia da sé. San Paolo esorta: “Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina” (Rm 12,19).
Inoltre il termine “mite”, in italiano s’associa a cose completamente estranee a Gesù: l’idea di liscio e sfumato, di dolciastro e insapore, di calma e di delicatezza. Il mite Gesù dell’immaginario devozionale, in azzurro cielo e rosa, è un tradimento del Gesù dei vangeli, il quale, nelle sue parole e nei suoi atti conosce certamente, se non la violenza, almeno l’indignazione e l’asprezza. Ma, durante la passione, allorché subisce la peggiore violenza, allora è totalmente nonviolento: non solo tace davanti ai giudici e ai carnefici, ma sceglie di recitare sulla croce il salmo 21, che è uno dei pochi salmi di lamentazione a non contenere alcun’invocazione della collera divina: è lì che la sua fondamentale nonviolenza appare in tutta la sua forza.
Questa nonviolenza davanti alla violenza del mondo ha una valenza politica: un rapporto particolare con il mondo che dà accesso a un universalismo specificamente cristiano. Mentre nel salmo 36 (di cui questa terza beatitudine è la citazione letterale), la “terra” di cui si parla e senza alcun dubbio la terra promessa, nel contesto del I secolo la parola “terra” ha preso un senso assai più ampio, indica di solito l’oikumene, l’insieme di tutto il mondo abitato da tutti i popoli e quindi dai pagani.
Nella problematica del “regno di Dio” atteso dai farisei e dall’insieme del giudaismo, soprattutto nelle apocalissi, si attendeva un dominio sul mondo che giungesse a conclusione di una guerra dei “figli della luce” contro i “figli delle tenebre”, come si cantava al monastero di Qumram. I temi essenziali di queste apocalissi sono la guerra santa, la distruzione di Roma, i sentimenti di odio e di vendetta, la riunificazione della diaspora, la descrizione materiale e terrena della salvezza, il rinnovamento di Gerusalemme e la sua restaurazione come capitale di un regno possente, la dominazione sui pagani, le delizie della nuova era …
La nonviolenza che implica la rinuncia definitiva a ogni rapporto violento con il mondo, sotto forma di guerra santa, di colonizzazione o di crociata, non implica tuttavia il ripiegamento sulla sfera individuale e privata dell’anima. Al contrario apre la prospettiva di un universalismo in cui tutta la terra, con tutti i suoi abitanti, è vissuta come un dono di Dio, come una ”eredità”. Cioè come un bene di famiglia che ci è attribuito gratuitamente, per il solo fatto che si è figli ed eredi legittimi dei beni del Padre. Le “nazioni”, i “pagani”, gli “eretici”, gli “idolatri”, tutti questi potenziali nemici della vera religione non sono più considerati come una pericolosa minaccia, bensì come una ricchezza, un tesoro che è donato a coloro che hanno superato la loro violenza per accedere a questa beatitudine.
Per il fatto che Gesù ha infranto il “muro di separazione” che separava il suo popolo dagli altri popoli, abbattendo nella sua carne l’inimicizia (Ef 2,14), già fin d’ora la pace può essere proclamata e vissuta. Già il salmo 21, senza dubbio a causa della rinuncia ad appellarsi alla vendetta di Dio, lasciava intravedere una tale riconciliazione di tutti gli uomini: “Ricorderanno e torneranno a Signore tutti i confini della terra; davanti a lui si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”(v.28).
C’è un ottimismo sul mondo che aveva destato stupore al momento della pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII e che i papi da allora non hanno mai cessato di mantenere vivo. Mai come ora, forse, davanti all’insorgere di nazionalismi ammantati di religiosità, legati a un gusto assai discutibile per la crociata e la guerra santa, bisogna scegliere. Gesù, quando nel deserto il tentatore gli offriva tutti i regni della terra in cambio della sua adorazione, aveva scelto: “Il Signore tuo Dio adorerai, a lui solo renderai culto” (Mt 4,8). La Chiesa ha certo bisogno di rifare continuamente la stessa scelta, tenendosi lontana dalla tentazione di risolvere troppo sbrigativamente i conflitti con l’uso “intelligente” della violenza.
Anche tutti noi Domenicani – eredi di un secolare impegno di tanti nostri fratelli e sorelle – dobbiamo continuare a mettere mente e cuore al servizio di un mondo di pace, superando schematismi e risposte facili e mantenendo fisso lo sguardo sul Signore: “Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, (…) eliminando in se stesso l’inimicizia” (Ef 2,14-16).

“Beati i nonviolenti, erediteranno la terra”.