(da “Nostro Tempo” 13 maggio 2018)

A cinquant’anni dal 1968 intendiamo ricordare non tanto gli eventi connessi al movimento sociale e politico che prende il nome da quell’anno, quanto la pubblicazione di un libro che – per tanti versi – risulta ancor oggi molto significativo. Ci riferiamo all’edizione tedesca della Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, in cui Joseph Ratzinger raccolse una serie di lezioni tenute all’università di Tubinga l’anno precedente rispetto a quello di cui ricorre il cinquantenario. Si trattava di un tempo in cui l’avvertito teologo, forte dell’esperienza come perito al concilio Vaticano II, accoglieva la sfida di mostrare l’attualità della verità dischiusa dal Credo.

Allora come oggi, la posta in gioco consisteva nel proporre con linguaggio accessibile i misteri della fede cristiana così come sono stati formulati dai concili di Nicea e di Costantinopoli, perché costituissero la fondamentale espressione dottrinale della chiesa. È il Credo che, ancor oggi, proclamiamo ogni domenica nell’assemblea liturgica e che costituisce la dichiarazione di quanto personalmente ed ecclesialmente accogliamo per fede. Per quanto l’aspetto dottrinale della fede sia stato da più parti ridimensionato, risulta ingiusto ridurre la portata e il ruolo di questo “simbolo di riconoscimento” tra i credenti a servizio dell’unità della chiesa. “Credere cristianamente significa intendere la nostra esistenza come risposta al Verbo, al Logos che sostenta e mantiene in essere tutte le cose. Significa dare il proprio assenso a quel ‘senso’ che non siamo in grado di fabbricarci da noi, ma solo di ricevere come un dono, sicché ci basta accoglierlo ed abbandonarci ad esso. La fede cristiana è pertanto una opzione a favore di una realtà, in cui il ricevere precede il fare…”. È per questo che la scelta di Ratzinger, in quegli anni movimentati, di introdurre alla fede cristiana procedendo dal commento al Credo, ricevuto appunto in dono dalla chiesa stessa, non ha perso nulla della sua attualità e della sua urgenza. “Il Simbolo esprime certo in primo luogo, prescindendo da tutte le tensioni e divisioni, il fondo comune della fede in Dio uno e trino. È la risposta all’appello lanciato da Gesù di Nazareth: ‘Fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli’. È una professione di fede in lui visto come vicinanza di Dio, come vero futuro dell’uomo”. Ancor più che cinquant’anni fa, si rischia oggi di avvertire con maggior scetticismo che il Cristo annunciato dalla Chiesa è il “vero futuro dell’uomo”. Nell’epoca che ha abbandonato i proclami sulla morte di Dio e della religione, per arrendersi all’evento del pluralismo religioso, da più parti si afferma una visione pessimista sul ruolo del cristianesimo nella storia. I puntuali richiami sul fatto che la nostra sarebbe un’era ormai post-cristiana, che riecheggiano da più parti, invece che rilanciare l’urgenza della missione sembrano offuscare la descrizione in parabole del regno di Dio offerta dai passi evangelici sul granello di senape o sul lievito nella pasta (cfr. Lc 13,18-21). Se siamo chiamati a vivere con libertà e dedizione la missione affidata dal Signore alla Chiesa, senza attardarsi oltremisura sugli ostacoli posti dal contesto, rimane pur vero che occorre un serio discernimento sulla qualità della proposta di fede. La misura alta della fede cristiana richiede quindi ch’essa sia vissuta conformemente alla carità, evitando così di scivolare nelle secche del “fraintendimento dottrinalistico” o della “secolarizzazione dell’amore”. Lasciarsi guidare nella comprensione del Credo alla luce della correlazione tra Verità e Carità, nei delicati frangenti dell’attuale passaggio d’epoca, può costituire una efficace preparazione per contribuire alla viva trasmissione della fede della Chiesa Al riguardo la Prefazione di Joseph Ratzinger alla prima edizione dell’Introduzione al cristianesimo può agire anche per noi come un pungolo – tanto esigente, quanto fecondo – per stimolare nuovamente la nostra riflessione sul Credo e sulle sue implicazioni per la vita cristiana. Si è talvolta persuasi che il nuovo è necessariamente migliore di ciò che ci è stato trasmesso. Piuttosto che assumersi la fatica dell’interpretazione che rende attuali per tutti gli aspetti espressivi del Cristianesimo (ripensando l’inevitabile discontinuità nel fluire stesso della vita della chiesa, in modo da togliere eventuali ostacoli alla sincera sequela di Cristo delle donne e degli uomini del nostro tempo), si rischia da più parti di comportarsi come il protagonista della “vecchia storiella” raccontata da Ratzinger. Un tal Giovannino “per maggior comodità, si era messo a scambiare il mucchio d’oro che gli risultava troppo pesante e faticoso, con una fila successiva di altre cose: dapprima con un cavallo, poi con una mucca, indi con un’oca, e infine con una cote per affilare, che terminò per gettare in acqua senza nemmeno perderci molto; anzi, ciò che ora ne aveva ottenuto in cambio, era il dono della piena libertà da lui tanto agognata. Fino a quando poi sia durato il suo stato di ebbrezza, quanto sia stato cupo e deprimente il risveglio dalla vicenda della sua pretesa liberazione, la storiella – come si sa – lo lascia pensare alla fantasia di chi la legge”. L’urgente aggiornamento del linguaggio e della prassi ecclesiale non entra in concorrenza col ritorno alle fonti: l’interpretazione della vita cristiana richiede proprio la fatica della riformulazione per evitare di trovarsi a scambiare l’oro che ci è stato trasmesso con molteplici novità, che comportano una mortificante svalutazione di quanto si ricevuto. Rileggere l’Introduzione al cristianesimo, nel tempo del post-cristianesimo proclamato, potrebbe ancora aiutarci a comprendere “in maniera nuova la fede”, senza cedere a quel “vacuo chiacchiericcio” – spesso alimentato dai media– “che stenta faticosamente a mascherare un totale vuoto spirituale”

fra Marco Salvioli